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Vi racconto le convergenze parallele fra Berlusconi e D’Alema dopo la vittoria del No

Se Matteo Renzi è mai stato davvero il “royal baby” descritto dal fantasioso e speranzoso Giuliano Ferrara in un saggio dedicatogli come se fosse l’erede dell’”amor nostro” Silvio Berlusconi, hanno commesso un infanticidio gli elettori del referendum costituzionale. Che hanno bocciato con ben 18 punti di scarto – il 59 per cento di no contro il 41 per cento di sì – la riforma e il suo protagonista, rovesciandolo già a mezzanotte, o poco più, dalla guida del governo. Ma fra qualche giorno o settimana forse anche dalla guida del Partito Democratico. Dove sta per essere avviato un congresso anticipato nel quale i rottamati, già imbaldanziti del successo referendario, hanno una gran voglia di liberarsi anche di ciò che dovesse restare del giovane e odiato rottamatore senza una sua rinuncia volontaria pure alla segreteria del partito.

Solo un labilissimo filo tiene ancora appeso Renzi, o la sua ombra, allo stenditoio della politica, diciamo così, decidente. E’ il filo che congiunge metaforicamente Palazzo Chigi e il Quirinale, dove siede un presidente della Repubblica che deve a Renzi la sua elezione, costata al presidente del Consiglio una rovinosa rottura con Silvio Berlusconi sulla strada delle riforme, e non ha alcuna voglia di concedere le elezioni anticipate a quanti le reclamano dal fronte vittorioso del no.

A chiedere a voce più alta le elezioni non anticipate ma anticipatissime è il solito Beppe Grillo, smanioso di vedere applicata quella legge elettorale chiamata Italicum e sino all’altro ieri contestata con una finzione da comico. Ora il leader a 5 stelle, guarito improvvisamente dalla crisi “neurogastrologica” diagnosticatasi da solo nella piazza principale di Torino chiudendo la sua campagna referendaria, ha già scatenato i colonnelli parlamentari a preparare addirittura “la squadra di governo”, come ha annunciato il vice presidente della Camera Luigi Di Maio. Che ha forse interrotto nell’occasione gli studi supplementari di geografia impostigli dal famoso incidente dello scambio del Cile di Pinochet col Venezuela.

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A Beppe Grillo fanno compagnia nella corsa alle elezioni anticipate, ancora aggrappati al fronte referendario pentastellato del no, il segretario leghista Matteo Salvini e la sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, in un impeto di generosità per il comico genovese davvero straordinario, sino al suicidio.

Sembrano invece essersi sfilati dal fronte pur vittorioso del no cui hanno partecipato – non so se più baldanzosamente o imprudentemente – Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema, contrarissimi alle elezioni anticipate e impegnati come un sol uomo a chiedere nervi saldi, se non addirittura a diffidare Sergio Mattarella da ogni tentazione, per quanto improbabile, al cedimento ai grillini e simili.

Berlusconi e D’Alema, che hanno evidentemente bisogno di tempo per organizzare il secondo tempo dell’operazione referendaria, quello destinato a restituire loro le carte perdute della cosiddetta Seconda Repubblica, si ritrovano quindi insieme, come ai tempi della bicamerale dalemiana, o a quelli in cui l’allora Cavaliere era tentato dai consigli di Giuliano Ferrara – sempre lui – di sostenere il primo comunista, o post-comunista, insediatosi a Palazzo Chigi anche in qualche edizione della corsa al Quirinale.

Renzi l’aveva detto in una delle ultime battute della sua campagna referendaria, tanto intensa quanto sfortunata: quei due –Berlusconi e D’Alema- sono una coppia che cerca di nascondersi, senza riuscirvi, alle rispettive e imbarazzate famiglie.

Dire della campagna referendaria di Renzi che è stata intensa e sfortunata è forse riduttivo. Intensa certamente lo è stata, e sfortunata pure, visto l’esito, peggiore delle già cattive previsioni della vigilia, quando il presidente del Consiglio pensava di poter anche perdere ma per “un filo di voti”, non certo con ben 18 punti di scarto. Una distanza, quella di un “filo di voti”, pari a tre, quattro o cinque punti percentuali, che gli avrebbe permesso di sicuro qualche uscita di maggiore sicurezza dalla scena, se non addirittura di evitarla coprendosi dietro i generosi rilanci a suo favore di un capo dello Stato così fortemente e furbescamente portato da lui sul colle più alto di Roma.

All’inizio di quella che è stata una troppo lunga e logorante campagna referendaria, quasi un anno fa addirittura, quando Renzi annunciò o minacciò il “ritorno a casa” se fosse uscito sconfitto dal referendum, sino a far saltare la mosca al naso del presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, spesosi molto per lui anche da presidente effettivo, scrivemmo modestamente e prudentemente su Formiche.net diretto da Michele Arnese, che solo alla fine dell’avventura elettorale, a conti fatti dei sì e dei no, si sarebbero potuto applicare a quell’annuncio l’aggettivo giusto: coraggioso piuttosto che imprudente, o viceversa. Ora si può ben dire che ci fu più imprudenza che coraggio. Un’imprudenza forse pari a quella della rottura con Berlusconi per mandare al Quirinale il pur ottimo Mattarella. Non parliamo poi delle forzature di Renzi –che vi furono, sottolineate anch’esse ai nostri lettori – sui percorsi parlamentari sia della nuova legge elettorale della Camera sia della riforma costituzionale: della nuova legge elettorale ricorrendo alla fiducia, e della riforma costituzionale rifiutando l’emendamento dei suoi compagni di partito, poi recuperato come impegno per il futuro, teso a garantire che sarebbero stati gli elettori a scegliere col sistema della doppia scheda i consiglieri regionali da mandare a Palazzo Madama. I tre quarti, o quasi, della campagna referendaria del no, per via dei senatori non più eletti, sarebbero stati evitati.

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Prepariamoci ora ad assistere alla solita corsa al buio degli aspiranti a Palazzo Chigi, nel caso in cui dovesse fallire il tentativo di Mattarella di ammortizzare rapidamente la crisi. Si sprecheranno i nomi “istituzionali” del presidente del Senato e della Camera, del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ed ora anche di Romano Prodi, per via del tanto veleno nel quale il professore emiliano ha voluto immergere all’ultimo momento il suo sì referendario, criticando sia il contenuto della riforma sia Renzi.

Nelle remore di una legge di stabilità, o bilancio, da approvare ancora in via definitiva entro l’anno, avremo un Natale denso di ambizioni e necessariamente anche di delusioni. Auguri a tutti, anche alla gente comune che intanto deve allacciarsi la solita cintura di sicurezza. D’altronde, è stata questa gente, col suo voto, a volere l’emergenza attuale, accorrendo peraltro così abbondantemente alle urne, con quasi il 70 per cento di affluenza. Che secondo i soliti specialisti, sondaggisti o no, avrebbe dovuto garantire al povero Renzi la vittoria, non una sconfitta così cocente, encomiabilmente riconosciuta dall’interessato, commosso, e carinamente condivisa con la graziosa moglie e i figli.

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