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Sorella Morte spiegata e analizzata da monsignor Vincenzo Paglia

Francesco chiamò fratello il lupo che ammazzava, il sindaco che opprimeva, il brigante che saccheggiava, e prima di morire aggiunse al suo Cantico delle Creature una nuova strofa che parlava della morte, per cambiarla e togliergli il pungiglione della disperazione”. Con queste parole Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e gran cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, ha presentato al Teatro Andrea D’Aloe della Parrocchia Gesù Divino Maestro di Roma il suo ultimo libro “Sorella Morte” (Piemme) dal titolo ispirato proprio allo stesso cantico di Francesco, dove affronta le delicate tematiche della dignità della vita e della morte nella cultura contemporanea. Vale a dire in una società iper-individualizzata, secolarizzata, che si potrebbe quasi definire ingannata, perché come dice lo stesso Mons. Paglia “è sciocca quella società che dice che tu vali se sei indipendente”. Citando inoltre il poeta anglicano John Donne quando dice: “nessuno è un’isola, siamo tutti legati”.

IL VALORE DI STARE ACCANTO AGLI ANZIANI OPPOSTO ALL’EUTANASIA

Il tema, racconta l’arcivescovo per tanti anni consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio, “nasce in un modo un po’ strano, da una riunione con un gruppetto di Sant’Egidio su questa ricerca affannosa dei politici a fare una legge sull’eutanasia. Noi però è dal ‘74 che stiamo accanto agli anziani, ne abbiamo accompagnati migliaia. E negli anni ’80, quando l’Aids era diffuso e mortale, andavamo dai giovani al Forlanini: spesso il 31 dicembre sono stato con loro sapendo che molto non avrebbero festeggiato l’anno successivo”. In un Paese dove per esempio l’età media è decisamente elevata anche il tema della morte assume con molta semplicità una valenza non più metafisica ma fortemente corporea e umana, che richiede per esempio l’impegno di stare accanto agli anziani e ai malati, e “la fatica di scegliere le parole per aiutarli a stare meglio”, come racconta Paglia: “questo ci ha aiutati a far nascere una consapevolezza e una sapienza, di fronte alla quale ci sembrava scandalosa la corsa a fare la legge non per accompagnare ma per eliminare”. Quello dell’accompagnamento degli anziani è infatti “una delle conquiste che la società deve raggiungere: l’esatto contrario rispetto ai tempi di Sparta, quando buttavano dalla rupe i bambini handicappati. E oggi la stessa logica è con gli anziani: non producono, consumano, sono di peso, fanno crollare l’economia del paese, e non possono farci progredire”.

LA MORTE RIMOSSA, OVVERO LA NUOVA PORNOGRAFIA

Tuttavia, dice Paglia, “studiando per scrivere questo libro ho capito bene che la morte non è di un gruppo, non è cattolica, ma è di tutti, di chi è venuto prima e di chi dopo. Questo mi ha spinto a una ricerca culturale, di opinioni e di senso stesso, interpellando anche la mia fede di credente. Mi sono chiesto: cosa vuol dire che credo alla morte e oltre?“. Il problema, sostiene Paglia, è che della morte difficilmente se ne parla, quando abbiamo a che farci non troviamo le parole, e questo l’ha resa “la nuova pornografia”: “Se devo parlare della morte io però vado con Gesù. Lo dico sempre che non credo all’aldilà, perché quando recitiamo il Credo questa parola non c’è. Si dice invece crediamo nella vita eterna, che non finisce, e la morte non la blocca, casomai la trasforma. Infatti Gesù quando risorge non è l’anima ma è il corpo in carne e ossa, con i chiodi”: è per questo, dice Paglia, che i cristiani “non sono coloro che credono all’immortalità dell’anima, ma alla resurrezione della carne”. E la riflessione, che parte da lontano, è propedeutica alla comprensione della nostra società, di quei modelli con i quali abbiamo a che fare ogni giorno: “se si fa propaganda dicendo che si vive solo se si è sani e forti, ci si finisce per convincersi ad autoeliminarsi: e la chiamano eutanasia, una parola che in greco significa buona morte. È il tradimento di una parola, che in quell’accezione significherebbe morire bene. È il frutto di una cultura diabolica”.

LA RIFLESSIONE SU VITA E MORTE FILO ROSSO PER UNIRCI

Riflettere sulla dignità della morte e sul valore della vita, quindi, non come un’opinione per eletti e credenti, ma piuttosto un argomento di discussione aperto e sostanzialmente condiviso con tutti, di indole laica e destinato soprattutto agli atei, a chi il senso della vita a volte lo ha smarrito: questo perché “chi non crede se sta accanto a chi crede è già in paradiso, ecco perché dobbiamo smetterla di parlare di convertire gli altri. Il paradiso è quando ci teniamo per mano e ci vogliamo bene, quando andiamo a trovare gli anziani all’ospedale o chi è in carcere. Il loro sorriso è il paradiso, quando sono in una situazione drammatica e tu, con la tua vita, gli cambi il volto”. A chi parla di un aldilà dove, comodamente, ci si potrà pesare soltanto una volta terminata la vita terrena, Paglia dice: “Il giudizio comincia quando neghiamo l’acqua, l’accoglienza, la vita, l’amore, la vicinanza, e nelle opere di misericordia”. Quindi, un “giudizio che non arriva alla fine, ma oggi, quando il paradiso è già in terra”.

UN LIBRO PER “METTERE UNA ZEPPA IN UN TRENO CHE VA ALLA DERIVA”

Lo scopo del libro è, in definitiva, quello di “mostrare la crudeltà di una cultura che accetta passivamente questo itinerario dell’eutanasia”, sostiene l’arcivescovo, e che capirlo significa “mettere una zeppa in mezzo a questo treno che altrimenti deriva”. O quello di accostarsi alla benedizione di una vita lunga che, accompagnata a un mutamento nei rapporti con gli altri, non presuppone né abbandono, rinuncia o accanimento, come si legge sfogliando il testo: “Non a caso per favorire la legge sull’eutanasia si portano sempre casi estremi, e le richieste di eutanasie non arrivano mai dai malati, ma dai parenti”, sottolinea Paglia. Allora qual è l’impegno? “Accompagnarci sempre, dall’inizio alla fine. Il filo rosso è la bellezza e la suggestione di tenerci sempre per mano. Certo, non per andare a buttarsi al Tevere ma per accompagnarsi. Ecco, io sono convinto che tenersi per mano nell’ultimo momento della vita è una grazia che dovremmo avere tutti, e quella stretta di mano neppure la morte la cancella. Infatti la stacchiamo dopo che è morto e non prima. Questo è il segreto della felicità. E non fa parte della cultura ordinaria ma del Vangelo”.

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