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Ecco frizioni e bizzarrie fra Renzi e Mattarella su governo e voto anticipato

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Sembrano barzellette ma non lo sono. Abbiamo buone notizie nelle quali però se ne trovano altrettante  cattive. Solo la politica italiana è capace di produrre cose simili, per giunta sullo sfondo di una crisi di governo di cui Matteo Renzi, dopo che il capo dello Stato aveva messo le sue dimissioni da presidente del Consiglio nel freezer del Quirinale, ha voluto accelerare l’apertura facendo approvare a tamburo battente nel redivivo Senato il bilancio col ricorso alla fiducia. Una cosa, questa, di cui il primo a stupirsi sembra essere stato il presidente della Repubblica, pur giustamente smanioso di poter promulgare quella legge, senza la quale lo Stato rimarrebbe paralizzato.

È quanto meno singolare che si riattivino le dimissioni di un governo dopo che questo ha riottenuto la fiducia parlamentare: un governo pertanto che cade pur avendo dimostrato di godere ancora di una maggioranza. La quale non è posticcia, improvvisata per il bilancio, ma conforme a quella di cui l’esecutivo disponeva prima delle dimissioni.

In un paese normale, al netto delle astruserie prodotte da una politica impazzita da tempo, ma anche dai costituzionalisti che stanno in cattedra in tutte le ore del giorno e della notte, dormendovi quindi sopra, un presidente della Repubblica dovrebbe chiedere al presidente del Consiglio dimissionario per quale motivo reclami una crisi disponendo della sua maggioranza, appena verificata nel passaggio parlamentare più importante fra quelli di un governo.

A un presidente del Consiglio che gli dovesse motivare di nuovo le dimissioni con la bocciatura referendaria, a larghissima maggioranza, di una riforma costituzionale così tanto voluta da lui e così faticosamente fatta approvare dal Parlamento, con tutte le procedure prescritte, il capo dello Stato dovrebbe poter rispondere, Costituzione alla mano, che il referendum su una legge è una cosa, per quanto la si voglia interpretare, e il rapporto fra il Governo e le Camere -tutto al maiuscolo- è un’altra. Per cui, il capo dello Stato potrebbe ancora dire al Renzi di turno: ora sei tenuto a continuare a governare. E chiudere: se senti il bisogno di verificare la fiducia non del Parlamento ma direttamente dei cittadini, devi farlo quando verrà il momento delle elezioni, che non puoi chiedermi di anticipare se non hai già perduto l’unica fiducia che reclama la Costituzione per un governo. E che è quella parlamentare.

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Ebbene, questo tipo di discorso reclamato dalla logica, o dal buon senso, se i signori costituzionalisti permettono, in Italia non si può fare. Non lo può fare neppure il capo dello Stato, perché il nostro è un paese singolare, dove tutto si può o addirittura si deve fare in modo strano, come dicono a Roma per ben altri versi.

Da noi, pur essendo l’unico a disporre del potere di sciogliere anticipatamente le Camere, il presidente della Repubblica non può, o non vuole, resistere più di tanto alle richieste di ricorso prematuro alle urne chiesto dal segretario del partito di maggioranza, e casualmente anche presidente del Consiglio, per ragioni tutte o prevalentemente interne allo stesso partito. Dove c’è una minoranza più o meno ribelle che vorrebbe tenerlo a forza a quel posto per logorarlo, non per aiutarlo a governare. Una minoranza che non a caso si è appena vantata di avere contribuito a sconfiggerlo, con le opposizioni di ogni colore, nel referendum su una riforma costituzionale peraltro da essa approvata in Parlamento, pur col mal di pancia.

Così accade che, pur all’indomani di una conferma della fiducia parlamentare, possa aprirsi una crisi di governo in uno scenario di elezioni anticipate. E qui arriva un’altra notizia buona da un verso e cattiva dall’altro.

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La notizia buona, in questo scenario di elezioni anticipate, è che il presidente della Repubblica ha fatto sapere a Renzi, con la discrezione che gli è abituale ma anche con la forza necessaria, che lui non scioglierà le Camere con la fretta reclamata non solo da buona parte delle opposizioni -da Beppe Grillo a Matteo Salvini– ma persino dal ministro uscente dell’Interno Angelino Alfano, spintosi ad auspicare elezioni già a febbraio, cioè fra appena due mesi. E si è spinto a tanto, il sorprendente Alfano, dopo averne dichiaratamente parlato col presidente del Consiglio, dando così l’impressione di essere stato da lui mandato in avanscoperta.

Votare a febbraio, visti i tempi così ristretti, e con le feste di Natale e Capodanno imminenti, significherebbe farlo o con una nuova legge elettorale a dir poco improvvisata, o con le due leggi elettorali diverse oggi in vigore: una per la Camera -che la Corte Costituzionale ha appena annunciato di volere esaminare con tutta calma il 24 gennaio, e che potrebbe essere bocciata in alcune parti, per esempio in quella del ballottaggio senza una soglia minima di partecipazione alle urne- e un’altra per il Senato, già mutilata dalla stessa Corte del premio di maggioranza e delle liste odiosamente bloccate.

Con due leggi diverse, o con una improvvisata in qualche giorno, e con due elettorati non uguali, non potendosi votare per i senatori prima dei 25 anni di età,  come prescrive l’articolo 58 della Costituzione, e bastando invece per Montecitorio i 18 anni, è altissima la probabilità di eleggere due Camere per niente omogenee, in cui il governo può avere la fiducia in una e non nell’altra.

Se così stanno le cose, come stanno, l’impuntatura di Sergio Mattarella, che rifiuta la “impensabile” ipotesi di febbraio prospettata da Alfano, non importa se per conto proprio o di altri, obbliga i partiti a darsi il tempo necessario per fare una nuova e buona legge elettorale, la più condivisa possibile, com’è giusto che sia quando si decide sulle regole del gioco, è sicuramente una buona notizia. Nella quale però c’è quella cattiva di una campagna elettorale più lunga, indefinitamente più lunga, sino a ridosso della scadenza ordinaria della legislatura, fra poco più di un anno. Una campagna elettorale che più lunga sarà, più danni potrà procurare per le condizioni di precarietà e per le tensioni in cui si troverà costretto a muoversi qualsiasi governo.

Attendersi dai partiti, almeno da quelli italiani, fra un Grillo scatenato, un Pd diviso, dove peraltro una minoranza insofferente del suo segretario rifiuta ora anche la prospettiva di un congresso anticipato e chiarificatore, e un cosiddetto centrodestra immobilizzato dalla concorrenza per la leadership fra il pur incandidabile Silvio Berlusconi e uno smaniosissimo Matteo Salvini; attendersi, dicevo, da questi partiti una tregua per senso di “responsabilità nazionale”, come vorrebbe Renzi, almeno a parole, è semplicemente impossibile. E lo sarebbe sia se al governo rimanesse lui, Renzi, sia se vi mandasse o ne subisse un altro.

 L’ingenuità in politica è peggiore persino della malvagità. E stento a credere che Renzi sia tanto ingenuo, pur avendo mostrato di esserlo, in verità, nella gestione della riforma costituzionale e del relativo referendum. L’ingenuità, peraltro, può anche essere il prodotto involontario di un eccesso di astuzia.

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