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Perché il Financial Times non maramaldeggia su M5s e Beppe Grillo

f-35 Energia, BEPPE GRILLO

Agli incantati dal favoloso mondo del renzismo suggerisco di leggere la lunga inchiesta sul grillismo apparsa venerdì 9 dicembre sul Financial Times a firma di James Politi. Un articolo ispirato fino in fondo a quell’ottica concreto-realistica del quotidiano londinese che, anche quando ha guidato la campagna contro la Brexit, non ha mai abbandonato il vizio di analizzare il mondo piuttosto che esorcizzarlo. E con questo taglio oltre a citare ampiamente il punto di vista di elettori del Movimento a cinque stelle, per esempio di un ragionevole imprenditore Ermanno Pergola impegnato nel settore delle ceramiche artistiche, già elettore del centrodestra e poi deluso, e di alcuni politici e studiosi italiani sia grillini sia del Pd, si riportano anche le opinioni argomentate di Vincenzo Scarpetta, del centro studi Open Europe, e di Mujtaba Rahman dell’Eurasia group, due analisti ascoltati dalla business community internazionale per le loro previsioni sull’evoluzione delle politiche del nostro Continente.
Nessuno dei due osservatori citati si perde dietro paragoni con il fascismo o addirittura con il nazismo del tipo che abbondano su Beppe Grillo nella nostra provinciale discussione pubblica. Chi ha conservato ancora un po’ di razionalità sa che fascismo e nazismo sono fenomeni derivati dalla Guerra civile europea post ’14-’18 e che, finita quella Guerra con lo scioglimento dell’Unione sovietica, evocare quei regimi è vezzo propagandistico per risparmiarsi la fatica di pensare. Persino quel fiorellino di campo che è Recep Tayyip Erdoğan nonostante l’opportunità offertagli da uno sconclusionato colpo di stato, ha inasprito gli elementi illiberali della sua presidenza ma senza compiere scelte definitive di tipo totalitario, quelle caratterizzanti i regimi fascisti.
Il lavoro di pulizia culturale del Ft è importante per distinguere critiche ragionate alle posizioni grilline da una canea vociante che di fatto non vuole contrastare un fenomeno politico considerato dannoso, bensì esorcizzare una realtà come demoniaca: questo approccio, alla fine, rappresenta l ’ulteriore espressione di uno svuotamento materiale della nostra democrazia (e neanche questa deriva va considerata fascista naturalmente per chi ha cura che le parole abbiano ancora un senso, bensì solo tecnocratico-elitista) affermatosi sistematicamente in Italia dal 2011.
Laicamente a Londra si giudica il grillismo un movimento politico, con programmi un po’ sballati che si stanno cercando anche di (auto)aggiustare. Ci si concentra naturalmente su un punto di vista “inglese” nel giudicare la situazione e nell’auspicarne certi esiti: non dispiacciono le resistenze all’egemonismo tedesco, né, del tutto, le prospettive di superare un euro che potrebbe diventare un ostacolo per l’economia inglese del dopo Brexit. Di fatto la posizione che più si critica dei grillini è una certa benevolenza verso Mosca.
Sgombrate dunque le sciocchezze sul “carattere fascista” del grillismo, è possibile -esaminando anche il punto di vista di un giornale così autorevole come quello che abbiamo citato- farsi un’idea delle influenze che si stanno esercitando sull’Italia. Dopo il commissariamento della politica post 2011 siamo diventati uno Stato in cui il comando “dall’alto” tende a contare più del voto popolare. Insieme, va registrato il clamoroso avanzare di un movimento di protesta con deboli radici culturali e che per questo motivo rende fragile da un altro versante la complessiva solidità politica della nazione. E va pure considerato come il “movimento” in questione nasca certamente anche per ragioni sacrosante di malumore popolare ma non del tutto spontaneamente: il suo impulso fondativo essenziale va individuato nel lancio di una campagna contro la casta politica che, in qualche modo oscurando le parallele responsabilità di altri segmenti delle classi dirigenti, ha determinato uno squilibrio nel potere nazionale grazie al quale sistemi di influenza innanzi tutto internazionali hanno potuto incrementare notevolmente il loro peso. Ed è interessante notare come il lancio di questa “operazione” (ad alcuni banali osservatori tutti tesi a criticare qualsiasi analisi complessa come “teoria complottistica”, credo sia utile spiegare che non sto parlando di “complotti” misteriosi bensì di “mosse” abbastanza esplicite di niente affatto oscuri soggetti politico-sociali) , avviene nel 2006 non tanto sull’onda di una rabbia popolare quanto per le prese di posizione della Confindustria montezemoliana e del Corriere della Sera diretto da Paolo Mieli. Tra il 2006 e il 2011 si distende poi questa iniziativa, certamente pure a causa di gravi carenze del berlusconismo, determinando le tendenze oggi in campo: una proposta di governabilità tecnocratica (con annessa visione funzionalistica invece che storico democratica delle istituzioni) che provoca deperimento dei margini residui di autonomia nazionale combinata a una protesta senza radici che porta allo stesso risultato. Ecco perché, dunque, senza innamorarsi né del favoloso mondo del renzismo né senza demonizzare una ribellione assai pacifica ma anche senza veri obiettivi, è necessario ragionare con calma se esista un’alternativa a una deriva verso una subalternità strutturale dell’Italia. C’è la possibilità che il casino del centrodestra (la vera anima sia pure assai confusa della sovranità nazionale “possibile” del dopo 1992) venga almeno in parte superato? Una certa ispirazione del No di sinistra può essere la base per una tendenza politica di segno analogo – sia pure programmaticamente contrapposto – capace di esprimere una pulsione verso un recupero di sovranità nazionale sia pure nei limiti del possibile? Non c’è una ricetta semplice da assumere perché il circuito Renzi-Grillo (tecnocrazia senza popolo e protesta senza programma di governo) finisce per svuotare “a tenaglia” la nostra residua sovranità possibile. E rimediare a questa situazione non è facile grazie innanzi tutto agli invasati dal favoloso mondo renzista che hanno diffusamente incrinato il “principio di realtà” nell’affrontare le questioni italiane. Un principio di realtà che implica il fatto che senza sovranità nazionale non vi sia una vera base per la sovranità popolare e quindi per una piena liberaldemocrazia. Provate su questa tesi a ragionare con certi “invasati” sul fatto che un Alexis Tsipras difendendo la centralità della sovranità del suo popolo sia ben più liberaldemocratico di Matteo Renzi e riceverete solo risposte insensate del tipo “non si è liberaldemocratici se non si è liberisti.” Come nel famoso dialogo: “Dove vai” “Porto pesci”.

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