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Ecco mosse, furbizie e mezze verità di Bolloré (Vivendi) su Mediaset

Vincent Bolloré Tim

Sarà stata anche una spiacevole coincidenza temporale. Ma i tracciati di Borsa, relativamente al titolo Mediaset, sembrano dimostrare il contrario. Quando iniziarono le trattative con Bolloré per la cessione di Mediaset Premium, la pay-tv dell’impero berlusconiano che non brillava di un’eccessiva salute, il titolo raggiunse, in Borsa, una vetta stratosferica. Con un massimo di 4,7 euro ad azione. Del 10 per cento superiore ai più brillanti risultati dell’anno precedente: quando il titolo, dopo una lunga rincorsa, si era attestato a 4,3 euro per azione. Per poi ridiscendere a fine anno ad un modesto 2,9. Con una contrazione di oltre il 30 per cento rispetto al punto più alto del ciclo.

La nuova rincorsa era iniziata tra la fine del 2014 e gli inizi del 2015: un po’ perché si riteneva il titolo sottovalutato, ma soprattutto a causa delle indiscrezioni circa l’imminente accordo con la casa francese ed il suo patron. Vale a dire Vincent Bolloré e Vivendi. Da allora era stato un crescendo, fino a raggiungere la vetta indicata nelle righe precedenti. Tutto sembrava procedere per il meglio finché, in data 26 luglio 2016, l’infausta notizia. Vivendi si tirava indietro, rispetto all’accordo sottoscritto e proponeva uno schema alternativo. Invece di acquistare l’89 per cento di Mediaset Premium proponeva di ridurre la sua partecipazione al solo 20 per cento. E, al tempo stesso, di acquistare il 15 per cento del capitale Mediaset attraverso un prestito convertibile.

Proposta non solo rinviata al mittente, ma immediatamente contestata da parte del partner “tradito”. Lo schema proposto – secondo le esplicite dichiarazioni del management del Biscione – “muta(va) la valenza industriale alla base dell’accordo per incidere significativamente sull’assetto del capitale di Mediaset”. Al rifiuto seguiva quindi la denuncia all’Autorità giudiziaria volta ad imporre il rispetto del contratto, con l’aggiunta di una richiesta di risarcimento miliardario. Qualcosa come 1,5 miliardi di euro. La difesa di Vivendi? “Non è vero che abbiamo spostato l’interesse da Medium Premium a Mediaset” e “non abbiamo intenzione di prendere il controllo di Mediaset”. Bugia dalle gambe corte, come mostreranno i fatti più recenti.

Nel frattempo il titolo Mediaset crollava in Borsa: con un meno 14 per cento, il giorno stesso l’annuncio del giravolta di Vivendi. Corsa rovinosa che è durata fino alla fine di novembre: quando il titolo ha chiuso a 2,2. Con una perdita rispetto al massimo relativo di luglio di oltre il 50 per cento. Per poi riprendere quota, con veri e propri strappi dell’ordine del 10 – 15 per cento, quando le intenzioni di Vivendi si dimostravano essere quelle che erano, smentendo clamorosamente quanto comunicato al mercato solo alcuni mesi prima.

Spiegare minuziosamente questi fatti spetterà allo Consob ed eventualmente alla magistratura. Quel che balza agli occhi è tuttavia evidente. A partire dalle motivazioni reali che hanno portato alla denuncia del contratto allora sottoscritto. I conti, secondo la difesa approntata dai francesi, non tornavano. Può anche essere: ma a che è servito, allora, un anno di trattativa? Forse la due diligence era sbagliata? E se anche fosse, di chi era la responsabilità. Cesare Geronzi invita a “non fare confusione” tra la persona di Bolloré e “la società che rappresenta”. Vale a dire Vivendi. Sarebbe stato il consiglio d’amministrazione della società a “scoprire” che quell’accordo non era un affare. Perché avrebbe comportato “delle correzioni nel proprio bilancio”. Comunque sia, se anche così fosse, sarebbe comunque nei confronti di altri che si dovrebbe esercitare l’azione di responsabilità.

Il dato sostanziale è invece un altro. E’ infatti evidente che il crollo del titolo in Borsa ha favorito la successiva scalata di Vivendi al vertice di Mediaset, con il repentino passaggio dal 3 al 20 per cento. Ed ora – a quanto sembra – intorno al 30 per cento. Passaggi, a quanto sembra, avvenuti fuori dal normale circuito di Borsa. Qui il grande salto del titolo (più 57 per cento), che in pochi giorni è salito da 2,7 euro (12 dicembre) a 4,2, si è verificato solo quando la notizia dell’eventuale raider è divenuta di pubblico dominio.

Due i profili che destano inquietudine. Il comma 2 dell’articolo 119 del decreto legislativo 58/1998, che regola la complessa materia finanziaria – la cosiddetta riforma Draghi – stabilisce: “Coloro che partecipano in una società con azioni quotate in misura superiore al due per cento del capitale ne danno comunicazione alla società partecipata e alla Consob”. C’è stata questa comunicazione tempestiva? I rumor di mercato dicono che la comunicazione ufficiale sia avvenuta solo quando Vivendi aveva acquistato una quota ben più rilevante. Avendo potuto operare con contratti a termine ed un solido sistema di alleanze all’Euronext Paris: vale a dire la Borsa parigina.

Ma c’è soprattutto il tracciato dei grafici ad alimentare più di un sospetto. Fin dal luglio 2016, come abbiamo riportato, era esplicita la simmetria che legava la vicenda Premium ad un obiettivo più ambizioso. Si può allora parlare di “manipolazione del mercato e abuso di informazioni privilegiate”: come denuncia la Fininvest? Che, com’é noto, controlla Mediaset, con una partecipazione rilevante, ma che non rappresenta, tuttavia, un muro invalicabile. La risposta dovrà darla Consob. E darla con tempestività. A differenza di quanto sostengono molti liberisti ad oltranza, il tema non è quello della concorrenza. Ma l’osservanza delle regole di mercato, codificate in precise disposizioni legislative. Il rispetto delle quali dovrebbe far premio su qualsiasi fumisteria ideologica.

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