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Perché i mercati non hanno pianto dopo Brexit, Trump e No al referendum di Renzi

debito pubblico, Guido Salerno Aletta, def

Anche stavolta i profeti di sventura sono stati smentiti: dopo il No al referendum costituzionale italiano, la flessione dell’euro sul dollaro è durata appena un battito di ciglia sulla piazza di Tokio, l’unica aperta quando sono stati diffusi i primi risultati. I mercati hanno reagito tutti assai bene, come se nulla fosse accaduto. Anzi, nel corso della settimana la Borsa italiana ha visto anche i titoli bancari in forte risalita, nonostante i gravi problemi del settore: l’uscita dalla crisi, che c’è ed è grave, non passerà dalle ricette mercatiste e monetarie adottate dal 2008 in avanti.

I TRE ATTI EVERSIVI DELLO STATUS QUO

Prima la Brexit, poi la elezione di Donald Trump e infine il No al referendum costituzionale italiano rappresentano altrettanti atti eversivi dello status quo. Mettono in discussione la globalizzazione che, postulando una crescita del mercato fondata sul mercantilismo salariale, dà luogo a squilibri strutturali nelle bilance commerciali ed al conseguente deflusso delle risorse così accumulate dall’economia reale. I valori degli asset, così come gli impieghi nel credito verso i privati, banche e Stati, risultano continuamente a rischio. I prodotti derivati a copertura , così come gli indici che misurano questi mercati, si moltiplicano all’infinito perdendo progressivamente contatto con la realtà. Intanto, l’economia reale non cresce ed il sistema finanziario è in allarme.

LA RISPOSTA ALLA CRISI E LA CRISI DELLA GLOBALIZZAZIONE

La risposta alla crisi del 2008, soprattutto in Europa, richiede agli Stati di varare riforme strutturali volta ad assicurare sempre più efficienza nell’impiego del fattore lavoro: alla flessibilità in entrata, deve essere aggiunta quella in uscita, mentre lo smantellamento dei sistemi di contrattazione centralizzata riconduce il salario al livello della produttività aziendale. Nel frattempo, i sistemi di protezione pubblica, previdenza, assistenza e sanità, devono essere ridotti per lasciare spazio alla iniziativa privata. C’è stata una corsa al ribasso che non ha solo distrutto la domanda interna,  falcidiato i fatturati e messo in crisi il credito bancario, ma ha rimesso in discussione i fondamenti della globalizzazione.

EFFETTO BREXIT

La Brexit ha inciso la corteccia: l’immigrazione incontrollata che deriva dalla libertà di circolazione delle persone all’interno dell’Unione europea non ha aumentato solo la concorrenza sul mercato del lavoro, ma ha determinato un aggravio per le finanze pubbliche inglesi per assistere anche gli immigrati. Il ripudio della libertà di circolazione delle persone ha messo in discussione un altro pilastro della globalizzazione, quello della libera circolazione dei capitali: l’Unione europea,  che considera indivisibili le quattro libertà di circolazione, punterebbe a punire la Gran Bretagna togliendole il libero accesso al mercato europeo dei capitali.  Si apre così un conflitto tra produttori, all’interno dello stesso Paese e dell’Unione.

CICLONE TRUMP

La campagna per le presidenziali americane è andata molto più a fondo. L’elezione di Donald Trump ha dimostrato una opposizione popolare ancora più radicale alla globalizzazione: ha preso di mira un modello economico  che sfrutta l’immigrazione clandestina, delocalizza gli impianti produttivi verso aree a più basso costo del lavoro, beneficia dei trattati commerciali che assicurano importazioni in esenzione doganale, e trattiene all’estero, legalmente ed esentasse, i profitti che ne derivano.

I PERCHE’ DEL NO

Il No al referendum costituzionale italiano è arrivato al cuore del problema, al conflitto tra efficienza del mercato, democrazia rappresentativa e ruolo degli Stati: è stato respinto, a larga maggioranza, il processo di razionalizzazione delle strutture statuali, fermo da un ventennio almeno, da quando si invocava il vincolo esterno come unico rimedio per intervenire. La Riforma serviva per rendere le istituzioni più efficienti, legiferando in conformità agli obblighi derivanti all’Italia dall’appartenenza all’Unione europea, e quindi all’ordoliberalismo cui questa si ispira, attraverso quattro passaggi fondamentali:  abolire le province e ridurre i poteri legislativi delle Regioni; introdurre la clausola di supremazia per la legislazione dello Stato; trasformare il Senato in una Assemblea delle Autonomie con poteri limitati; assicurare la votazione a data certa da parte della Camera delle proposte del governo. L’Italicum, con il ballottaggio ed il premio di lista, avrebbe assicurato comunque un governo, quale che sia, senza mercanteggiamenti né mediazioni: tanto, il cammino politico da percorrere sarebbe stato quello tracciato dalla Unione europea.

COSA PENSANO ORA I MERCATI

Se i mercati finanziari hanno reagito così bene a ben tre consultazioni popolari che hanno rimesso in discussione la globalizzazione e l’ordoliberalismo europeo, è perché sono convinti che si sia concluso il ciclo post-crisi di cui sono state protagoniste le banche centrali. L’immensa liquidità immessa in questi anni ha permesso alle Borse di riprendere quota, ma non all’economia reale di riavviarsi ad un ritmo coerente in termini di occupazione e di inflazione. Il timore è che, al minimo contrattempo congiunturale, tutto crolli. E, stavolta, né gli Stati oberati dai debiti, né le banche centrali che hanno bilanci enormemente appesantiti dagli asset in portafoglio, potrebbero più intervenire. La prospettiva di una stagnazione secolare delineata dopo la crisi del 2009 non è altro che la prosecuzione del processo di caduta del tasso di crescita delle economia industrializzate occidentali iniziato negli anni Settanta. Si sono susseguiti da allora eventi ed artifici che hanno aumentato a dismisura le risorse a disposizione del sistema finanziario in un contesto in cui non era più il risparmio privato a fornirle.

COSÌ DOPO LA CRISI DEL 1971 LA FINANZA HA PREVALSO SULL’ECONOMIA REALE 

La divaricazione tra economia reale e finanza inizia con la crisi petrolifera del 1973: la tassa dello sceicco rappresenta un prelievo che va ad alimentare i circuiti finanziari, attraverso i petrodollari. Nel 1980, si prosegue. L’aumento dei tassi di interesse reali americani si accompagna alla seconda crisi petrolifera: mentre la decisione della Fed si riflette dappertutto comportando un massiccio trasferimento di ricchezza alla rendita, lievita il debito degli Stati e falliscono migliaia di imprese incapaci di sostenere la duplice sfida. La caduta del Comunismo, tra il 1989 ed il 1991, apre le porte alla prima fase della globalizzazione: le maggiori risorse al sistema finanziario provengono stavolta dalle delocalizzazioni nei Paesi oltre Cortina in Europa e dalla caduta dei regimi comunisti, prima sostenuti dall’Urss, in Africa ed America latina. La abrogazione nel 1999 del Glass-Steagall  Act negli Usa, con la successiva caduta in tutto il resto dell’Occidente del divieto per le banche commerciali di effettuare investimenti finanziari, serve al lancio della New Economy: anziché indirizzarsi all’economia reale, i risparmi andarono in Borsa e finirono nel nulla. Non basta ancora: è del 2001 la seconda fase di globalizzazione, con l’adozione dell’euro e l’ingresso della Cina nel Wto. I saldi commerciali attivi strutturali che ne conseguono, soprattutto da parte di Germania e Cina, alimentano da una parte il mercato americano dei mutui sub-prime e  l’indebitamento dei paesi dell’Europa meridionale, e dall’altra disavanzo pubblico americano. Alla crisi del 2008 hanno risposto le banche centrali, ma invano: l’austerità, soprattutto in Europa, ha fatto precipitare il consenso popolare.

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