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Viva il progresso. Anzi no

“All’avanguardia della tecnica, l’avanguardia non accetta definizioni, l’avanguardia è anche emozione”: ci voleva la nuova campagna pubblicitaria di una casa automobilistica che punta sulle tecnologie di guida assistita per rispolverare un termine che almeno politicamente sembra sepolto negli opposti estremismi degli anni di piombo, con la comunista Avanguardia operaia a sinistra e la fascista Avanguardia nazionale a destra. Tra gli spot di questa marca di auto troviamo anche un “evolve on” e persino un: “C’è chi insegue il progresso e chi lo anticipa”.

Anche di progresso, ormai, se ne parla pochissimo. Non va di moda nemmeno tra i progressisti, che infatti non si definiscono quasi più per nulla così: una deriva cominciata da quando la sinistra ha inoculato i germi ecologisti, sventando il rischio dell’affermazione di una formazione politica “verde” troppo concorrenziale ma smantellando, nel contempo, l’impalcatura di valori e immagini su cui si era fino ad allora fondata, quella del sole dell’avvenire e del proletariato, contadino e soprattutto industriale, in cerca di emancipazione. E d’altra parte la destra, invincibilmente condizionata dalle sue componenti conservatrici e tradizionaliste, non se la sente di prendere in mano un testimone così pesante e scomodo.

Neppure la modernità tira più come un tempo: per illustrare la crisi di questo lemma possiamo rimandare a un ventaglio di saggi che va dalla “Critica della modernità” di Touraine alla “Modernità liquida” di Bauman, passando per l’efficace compendio raccolto in “Contro la modernità” da Luciano Pellicani ed Elio Cadelo, al quale possiamo abbinare la Breve storia del futuro” di Jacques Attali. Un altro termine in declino: non c’è più il futuro di una volta, potremmo dire.

Oggi i termini ammessi come surrogati sono altri, soprattutto il molto politicamente corretto “sviluppo”, meglio ancora se ulteriormente addolcito dal taumaturgico “sostenibile”. Anche “innovazione”, “tecnologia” e i loro derivati se la cavano benissimo, così come “ricerca scientifica”, ma spesso sono ridotti ai minimi termini, a luogo comune: la fuga di cervelli da combattere e per la quale auto-flagellarci, la ricerca da sostenere perché crea ricchezza e benessere, i ricercatori malpagati e precari da trattare meglio… I luoghi comune non sono necessariamente proposizioni erronee, anzi quasi sempre contengono una realtà sostanziale, ma trasformata in un’innocua icona retorica da portare nelle processioni delle chiacchiere pubbliche e private per fare una buona impressione.

Per esempio, quasi nessuno si chiede come affrontare la concorrenza/competizione rispetto alle fonti di finanziamento internazionali, se con l’attuale “tutti contro tutti” che costringe colleghi di due università adiacenti a trasformarsi in acerrimi avversari, oppure con sinergie ampie che però costringono a strategie efficaci. E il rapporto pubblico-privato negli investimenti? Continuare a chiedere finanziamenti statali in un paese nel quale quelli delle imprese sono a un terzo della media europea è una ipocrisia bella e buona. Resta del tutto assente dal dibattito anche il tema del rapporto tra ricerca di base (quella che un tempo si chiamava pura, a proposito di politically correct) e applicazione, come pure la relazione tra innovazione e sottosviluppo.

Parlare per luoghi comuni consente di farsi capire meglio ma rischia di trascinare il dibattito su un binario morto. È un po’ il rischio che si è corso durante alcuni panel del Festival del giornalismo culturale organizzato a Fano e Urbino da Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini. Per esempio con la strenua difesa dell’ultima presa di posizione di Umberto Eco contro gli “imbecilli della rete” assunta da Stefano Bartezzaghi, come se constatare la senile resipiscenza del semiologo fosse un reato di lesa maestà. Oppure con il dibattito su “Dalla ricerca alla comunicazione”, in cui Paolo Conti del Corriere ha spiegato come il web consenta ai giornalisti del cartaceo di sfogarsi dopo una vita passata a tagliare articoli troppo lunghi e Marino Sinibaldi ha lamentato la presunta difficoltà di “far arrivare” temi come scienza e cultura sui media: due posizioni che francamente riducono a ben poca cosa la rivoluzione delle reti, come è stato osservato nel dibattito finale su “Innovazione e tecnologia”.

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