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Ecco quando (forse) si svolgeranno le elezioni anticipate

elezioni anticipate

Luciano Violante, ex presidente della Camera e mancato giudice della Corte Costituzionale – dove non lo vollero eleggere né i grillini, né i forzisti di Silvio Berlusconi, né i leghisti, né i fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ma soprattutto i giustizialisti del suo partito, il Pd, che gli fecero pagare a scrutinio segreto le sempre più frequenti critiche a quella che lui chiama da qualche tempo “la società giudiziaria”, in cui troppo è rimesso alle toghe – ha fatto i conti del tempo che si perderà in Parlamento per attendere il responso della Consulta prima di affrontare la nuova, ennesima riforma elettorale.

Non basterà aspettare l’udienza già fissata dalla Corte per il 24 gennaio, e forse destinata a proseguire il giorno dopo, sui ricorsi presentati contro l’Italicum, che disciplina dall’estate scorsa l’elezione della sola Camera. Conosciuto il verdetto, bisognerà poi attendere il deposito della sentenza ed analizzarne il contenuto. Si arriverà pertanto “a fine febbraio o marzo”. Campa cavallo che l’erba cresce, dice un vecchio proverbio, pur non citato esplicitamente da Violante.

“Il punto di fondo – ha detto l’ex presidente della Camera dolendosi implicitamente che si sia evitato di chiarirlo allungando i tempi della riforma – è se dobbiamo tenerci l’Italicum corretto o andare sul Mattarellum”, come ha proposto invece Matteo Renzi rilanciando il sistema misto di maggioritario e proporzionale con cui, fra il 1994 e il 2005, vinsero le elezioni alternativamente Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Un sistema che piace anche a Violante, purchè depurato del cosiddetto “scorporo” e delle “liste civetta”: difficili da spiegare in due righe ma rivelatisi praticamente dei trucchi per alterare le partite elettorali.

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In attesa che si trovi una maggioranza per sciogliere il nodo ricordato da Violante, se adottare cioè l’Italicum affettato dalla Consulta o tornare ai collegi uninominali del Mattarellum, o ancora più indietro, cioè al proporzionale ora rimpianto da Silvio Berlusconi, ma forse anche da Beppe Grillo, se lo dovesse trovare conveniente, continua naturalmente la campagna elettorale.

Se n’è finalmente accorto anche il Corriere della Sera, dove Mauro Cianca ha avvertito i lettori che una campagna elettorale troppo lunga, come potrebbe essere quella immaginata da chi vorrebbe votare solo nella primavera del 2018, alla scadenza ordinaria di questa tormentatissima legislatura entrata in conflitto sulla riforma costituzionale con la stragrande maggioranza del Paese, può produrre solo guasti. E soprattutto al partito ancora di maggioranza nelle aule parlamentari, che è il Pd, senza la cui complicità, per via delle azioni di disturbo condotte all’interno dagli avversari di Renzi, le cose non potrebbero essere tirate così per le lunghe.
È un partito, il Pd, che non si è accorto di essere ormai diventato agli occhi di tanta gente, come ha ricordato giustamente e impietosamente Cianca, la versione politica di Poltrone e divani.

Lo sta provando sulla sua pelle il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che le opposizioni vorrebbero sfiduciare, nonostante le scuse da lui già chieste, per infelici espressioni usate verso i giovani italiani che lavorano all’estero, non essendo riusciti evidentemente a farlo a condizioni convenienti nel loro paese. Ma anche per i finanziamenti pubblici di cui gode un settimanale della provincia di Ravenna – ma non erano state abolite le province? – diretto dal figlio del ministro, Manuel. Che ha un po’ riconosciuto pure lui le gaffe del padre.

La solita sinistra del Pd – quella alla quale il vice presidente renziano della Camera Roberto Giachetti ha recentemente attribuito “facce di bronzo” ripiegando dal “culo” usato poco prima fra le proteste degli interessati – ha annunciato a Poletti che gli salverà la poltrona di governo, votando contro la sfiducia, se lui accetterà di abolire o di modificare radicalmente i voucher, cioè i buoni di lavoro accessorio sottoposti, con altri aspetti della recente riforma del mercato del lavoro, allo strumento abrogativo del referendum promosso dalla Cgil di Susanna Camusso.

In altri tempi questo si sarebbe chiamato ricatto. Ma in altri tempi, appunto. Adesso evidentemente è solo confronto politico.

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Carlo Nordio, un magistrato che non ha certo bisogno di presentazione, diffida giustamente di certo garantismo a corrente alternata, o ad orologeria. Come quello che potrebbe scattare a favore della sindaca grillina di Roma Virginia Raggi, all’interno del suo movimento generalmente giustizialista, se dovesse essere raggiunta, come ormai appare scontato, da uno o più avvisi di garanzia dopo l’arresto del suo ex fiduciario Raffaele Marra.

Nel denunciare però l’abuso che si fa degli avvisi di garanzia nella lotta politica, per liberarsi dell’avversario di turno reclamandone e ottenendone le dimissioni a dispetto del carattere protettivo, per l’indagato, che ha questo istituto, Nordio è incorso in un errore che mi ha molto sorpreso.

Egli ha fatto cominciare il fenomeno dell’uso strumentale degli avvisi di garanzia nella lotta politica all’autunno del 1994, quando a farne le spese fu l’allora presidente del Consiglio Berlusconi. È curioso che il pur informatissimo magistrato veneto abbia dimenticato gli anni precedenti: quelli per niente eroici, da una parte e dell’altra, di Tangentopoli o Mani pulite, come furono retoricamente definite le indagini sul finanziamento illegale e generalizzato della politica, anche se la “ghigliottina” delle Procure fu molto, ma molto selettiva, a dir poco.

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