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Jobs Act e licenziamenti: la verità non ha partito

L’Osservatorio sul Precariato ha recentemente pubblicato i dati sui rapporti di lavoro afferenti al periodo gennaio – settembre 2016. Sarebbe opportuno leggere – nemmeno con particolare attenzione – il contenuto del report pubblicato. Invece no. O forse sì, ma in questo caso saremmo di fronte ad una situazione davvero grave: la distorsione della realtà, la falsa rappresentazione di essa che dà origine ad un’informazione errata e fuorviante con ogni conseguente effetto. È sufficiente una rapida rassegna stampa per comprendere il titolo del presente articolo, nonché la personale battaglia che da tempo ho intrapreso contro la “cattiva” informazione, ovvero, la disinformazione.

“Effetto Jobs Act, crescono i licenziamenti disciplinari” (La Stampa, 11.12.2016): “…e c’è chi ha anche perso il posto mentre era in malattia o per contestazione senza prove”, (sempre “La Stampa”, 11.12.2016); “INPS: licenziamenti in crescita, soprattutto in azienda over 15”, (Qui Finanza, 16.11.2016). Così leggendo i titoli, si comprende che l’Osservatorio sul Precariato ha emanato dati dai quali desumere: aumento dei licenziamenti in generale; aumento dei licenziamenti disciplinari in modo massiccio; che tutto ciò sia da attribuire al Jobs Act. Non solo. Ci sono poi alcune “storie” che dovrebbero certificare la tesi sostenuta ed esperti del settore che certificano la “verità” espressa. L’Avv. Giorgio De Stefani afferma: “…adesso il datore di lavoro è più portato ad andare per le spicce perché dispone dello strumento tecnico per poterlo fare. E ancora: “Si tollera meno, specie se non c’è un rapporto di conoscenza del dipendente”, (La Stampa, “Effetto Jobs Act, crescono i licenziamenti disciplinari”, 11.12.2016).

La consulente del lavoro Monica Melani prosegue l’analisi: “l’aumento registrato dall’INPS non è dovuto tanto alla legge in sé, quanto all’abuso che ne viene fatto”. Il giornalista poi chiosa affermando: “così crescono soprattutto i licenziamenti individuali per ragioni disciplinari, proprio quelli cioè sui quali è intervenuto il Jobs Act con il contratto a tutele crescenti”. Quando il lettore si è quasi convinto della tesi proposta e quindi è pronto a “distruggere e colpevolizzare” le “tutele crescenti” e/o il Jobs Act in generale s’imbatte però negli esempi concreti delle tesi sostenute: si cita tal Domenico Rossi, con 35 anni di anzianità di servizio. Ma al lavoratore Rossi il contratto a tutele crescenti non si applica! Ecco subito demonizzato il datore di lavoro “Carrefour”, reo di aver “sportivamente” licenziato il dipendente sulla base di una normativa che però non si applica al caso! Ma qualcuno si è preso la briga di leggere? Di studiare? Prima di sentenziare e far passare un messaggio errato sotto ogni profilo? Probabilmente no.

Infatti, dopo le testimonianze completamente fuori contesto e che nulla c’entrano con il titolo dell’articolo (Effetto Jobs Act), Giovanni Guizzardi, consigliere dell’Ordine dei consulenti del Lavoro di Bologna così liquida la vicenda: “Non vengono spalancate indiscriminatamente le porte d’uscita, né si assiste a esodi di massa, ma senza lo spauracchio delle reintegra molte aziende si arrischiano in licenziamenti che prima del Jobs Act avrebbero evitato”! Ma non è il caso che è stato commentato: il contratto a tutele crescenti si applica solo ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dopo il marzo 2015. Ma ciò che è palese non appare chiaro ai protagonisti (giornalista, lavoratore ed esperti) di questo articolo, tant’è che si continua con il caso di Ettore Ambrosini, che “per 28 anni ha lavorato…”. Ci risiamo, ancora un esempio di un lavoratore al quale non si applica il contratto a tutele crescenti. Potrei continuare ancora, ma mi preme – per quanto possa – cercare di fare un po’ di ordine.

Torniamo all’Osservatorio ed in esso possiamo leggere e documentare che: “Analizzando la cessazione per tipologia si rilevano 448.544 licenziamenti nei contratti a tempo indeterminato (+ 4% rispetto al 2015 ma in diminuzione rispetto al 2014). La riduzione delle dimissioni è stata consistente (-94.000)”. Il dato che emerge non sembra essere allarmante specie tenendo conto che il dato generale della cessazione dei rapporti di lavoro è comunque di segno negativo rispetto al passato: -5,4% globale, -4,7% per i contratti a tempo indeterminato.

Dove nasce l’equivoco poi raccolto per fornire una realtà non fondata sul dato corretto? Andando più a fondo nell’analisi dei dati, la Tab. 6 del documento in commento rileva un aumento  – all’interno delle cessazioni complessivamente considerate – dei licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo. Se l’analisi si fermasse qui, nessuna falsa informazione. Il problema è che certi commentatori attribuiscono questo dato all’introduzione nel marzo 2015 del contratto a tutele crescenti. E’ qui che l’informazione non rispetta i canoni della veridicità. Poiché, se così fosse si dovrebbe dimostrare che quei licenziamenti sono stati irrogati a lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ovvero dopo l’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti. Solo a coloro assunti dopo quella data si applica il regime introdotto dal D.lgs 23/2015.

Dovremmo essere dinnanzi ad un esercito di lavoratori che per qualche perverso motivo sono stati assunti a marzo, aprile, settembre 2015 o, peggio, gennaio, febbraio 2016 e licenziati tra gennaio e settembre 2016!! Il dato non c’è e personalmente lo ritengo poco credibile. Ed, infatti, le testimonianze riportate avevano come soggetti lavoratori con anzianità ventennale.

Vedete, qui non si tratta di essere pro o contro il Jobs Act, bensì di dare un’informazione quantomeno veritiera, almeno verosimile; stiamo trattando un tema sensibile che merita attenzione e competenza ed è un dovere civile offrirle. La parola ha ancora una grande forza, occorre fare grande attenzione al suo utilizzo e soprattutto occorre un grande senso di responsabilità.

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