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Mps, lo Stato salvatore, i banchieri pasticcioni e il capitalismo senza capitali

Il popolo dei social media, quello che secondo Beppe Grillo dovrebbe fare le leggi, rumoreggia: ecco, per salvare una banca il governo i soldi li ha trovati, per il reddito di cittadinanza no. Se il Monte dei Paschi di Siena fosse fallito che cosa avrebbero detto i moderni sanculotti della piattaforma Rousseau? Che il governo abbandonava gli Ignari Risparmiatori (categoria economico sociale creata dalla crisi delle banche); c’è da scommetterlo. Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan erano con le spalle al muro. Giunti a questo punto il salvataggio pubblico diventava inevitabile, non c’erano più molte altre fiche sul tavolo. Poteva e doveva essere deciso prima? Autorevoli economisti, anche di scuola liberista, sostengono di sì. Forse hanno ragione, ma non è stato un errore tentare la soluzione di mercato.

“E’ una svolta”, ha dichiarato il presidente del Consiglio. In che senso? Vuol dire forse che l’epoca delle privatizzazioni è finita e comincia così il nuovo statalismo in banca e, di qui a poco, nell’industria? Il Tesoro sostiene che i 20 miliardi non peseranno sul deficit che non salirà oltre il 3% del pil. Ma graveranno sul debito che a questo punto è destinato a gonfiarsi ancora, infatti il fondo per Mps verrà coperto con nuovi titoli di stato.

Il salvataggio pubblico va letto come il fallimento dell’intero sistema Italia. Non si trova un imprenditore, un finanziere, un banchiere che abbia il coraggio di fare da punto di riferimento per ricapitalizzare il Monte dei Paschi. Chi ha venduto le proprie aziende all’estero promettendo di reinvestire i guadagni in Italia s’è tenuto i soldi sotto il materasso o li ha parcheggiati nei paradisi fiscali. E’ un capitalismo senza capitali e senza capitalisti. Se però passa, tra il gaudio nazionale, la linea che gli sbagli dei banchieri, degli azionisti, degli obbligazionisti, dei risparmiatori (che per lo più non sono ignari semmai ingenui e alcuni anche complici), vengono pagati in prima istanza da tutti i contribuenti, si apre il vaso di Pandora. I segnali non sono incoraggianti. E’ inquietante quel senso di sollievo, se non proprio di contentezza, che sale dalle aule del Parlamento a destra come a sinistra. Non è questione ideologica, non è una discussione accademica tra liberisti e statalisti, è il trionfo dell’azzardo morale e, nel caso italiano, il collasso delle finanze pubbliche.

Sono sei anni che i governi – da Tremonti con i suoi bond offerti sia pure a caro prezzo, fino a Padoan – si arrabattano per non arrivare a questo punto. Lo scandalo emerso nel 2012 ha fatto scoppiare il bubbone gonfiato dalla hybris di amministratori come Giuseppe Mussari che hanno comprato una banca, l’Antonveneta, pagandola troppo (9 miliardi di euro) senza sapere come farvi fronte. Ma per quanto determinanti nel provocare il collasso finale, non sono queste le uniche cause della crisi. C’è il comportamento della Fondazione che si è svenata per sostenere la sua banca, mentre a norma di legge avrebbe dovuto già da tempo ridurre la presa. C’è il sistema Siena (politico, economico, culturale, sportivo persino) specchio del modello centro-italiano che ha distribuito a lungo benessere finché non è arrivato il momento di pagare il conto. Perché non esistono pasti gratis, nemmeno quelli imbanditi dalle contrade nei giorni del Palio.

L’aumento di capitale sostenuto da JP Morgan non piaceva alla Bce, come si è visto, e in ogni caso è caduto insieme a Matteo Renzi che lo aveva sponsorizzato. Gli immancabili sceicchi che escono dalla bottiglia come il genio nella storia di Aladino, da buoni spettri si sono volatilizzati. Tutto è bene quel che finisce bene, ma siamo sicuri che tutto sia finito e finito bene? Il conto economico del Montepaschi è stato sistemato da Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, i capitali li mette lo Stato, però l’idea che la banca possa ripartire come niente fosse è sbagliata. L’amministratore delegato Marco Morelli dovrà chiedere agli azionisti se il modello di banca seguito da Mps funziona o se non è meglio approfittare di questa crisi per avviare un ripensamento di fondo. Ha senso il suo insediamento territoriale? Non ci sono ancora troppi sportelli? Non deve trovare una nuova dimensione meno generica?

La caduta del Montepaschi, così come l’intera catena di difficoltà che impiomba le banche italiane, va letta dentro una crisi strutturale che ha colpito il sistema creditizio e il mestiere di banchiere. E’ in corso una grande ristrutturazione, in Italia è arrivata in ritardo, ma è arrivata. Sarebbe colpevole chiudere gli occhi e poco saggio non approfittare dell’occasione per girare pagina. Per ora non si vedono segni di una strategia nuova, ma forse è ancora presto. Il Montepaschi dovrà presentare il suo piano industriale, però il Tesoro a questo punto deve fare l’azionista attivo: la linea che indicherà a Siena diventerà il punto di riferimento per l’intero sistema creditizio.

Se niente potrà essere più come prima, allora bisogna avere il coraggio di discutere apertamente sugli errori commessi. Non le malefatte delle quali si occupano i tribunali, ma i limiti manifestati nella governance e nella cultura creditizia. Un banchiere che ha visto i conti sostiene che su 47 miliardi di euro di npl, da tre a cinque dipendono dai grandi clienti incappati nella durissima recessione di questi anni, sei o sette dal sistema Siena (in altre parole una gestione clientelare del credito). E gli altri? La risposta a questa domanda è esenziale affinché Mps esca dalla crisi e non si ripetano uno, dieci, cento Mps. Così come resta fondamentale liberarsi delle soffererenze altrimenti l’aumento di capitale “precauzionale” non basterà.

Il crac del Monte dei Paschi è il più grave dopo quello del Banco di Napoli, ma viene affrontato in modo opposto. Allora si prese esempio da quel che stavano facendo gli svedesi, un modello poi seguito nel 2009 dagli Stati Uniti. L’istituto di credito napoletano nel 1996 venne ricapitalizzato dal Tesoro temporanemente in vista di una sua privatizzazione, una volta ripulito di tutte le sofferenze collocate in una bad bank. Ceduto nel 1997 alla cordata Bnl-Ina, passò poi al Sanpaolo per appena 60 miliardi di lire. La bad bank (chiamata Sga) in sei anni è rientrata del 94% delle esposizioni. Il recupero crediti ha consentito di sanare le perdite e mettere da parte un discreto guadagno (a fine 2015 era pari a 469 milioni di euro) ora parcheggiato presso il Tesoro. Adesso il governo abbraccia il modello tedesco (in Commerzbank) o inglese (Northern Rock, Lloyds, Royal Bank of Scotland), entra nel Montepaschi come azionista diretto (probabilmente con oltre il 50 per cento) senza avere una exit strategy e con tutte le partite avariate ancora in pancia.

Vedremo se le finanze pubbliche ne ricaveranno, tra qualche tempo, un tesoretto.

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