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Com’è cambiata l’élite culturale secondo Zygmunt Bauman

Di Zygmunt Bauman

Un’indagine condotta da un gruppo di ricercatori sotto la guida dell’illustre sociologo di Oxford John Goldthorpe in Gran Bretagna, Cile, Ungheria, Israele e Olanda, ci dice che al giorno d’oggi non è più tanto facile distinguere una élite culturale da quelli che si trovano più in basso nella gerarchia culturale sulla base di vecchi indicatori, come ad esempio la presenza assidua a opere e concerti, l’entusiasmo per tutto ciò che è considerato “arte alta” in un determinato momento e l’abitudine di storcere il naso nei confronti di “tutto ciò che piace alla massa, come una canzone pop o la televisione popolare”. Con questo non si vuol dire affatto che non esistano più soggetti che vengono considerati (non da ultimo da se stessi) come élite culturale, veri appassionati d’arte, persone meglio informate rispetto ai loro pari meno colti su che cosa rientri nell’ambito della cultura, in che cosa consista e che cosa sia comme il faut o comme il ne faut pas (appropriato o inappropriato) per un uomo o una donna di cultura. Solo che, a differenza delle élite culturali di un recente passato, essi non sono intenditori nel senso stretto del termine, non possono guardare dall’alto in basso il gusto dell’uomo comune o l’assenza di gusto dei filistei. È più giusto descriverli piuttosto – per usare il termine coniato da Richard A. Peterson della Vanderbilt University – come degli “onnivori”: nel repertorio del loro consumo culturale c’è spazio tanto per l’opera quanto per l’heavy metal o il punk, per “l’arte alta” come per la televisione popolare, per Samuel Beckett come per Terry Pratchett. Un boccone di qua, un morso di là, oggi questo e domani qualcos’altro: un misto. […] Non è tanto questione di scontro tra un gusto (raffinato) e un altro (volgare), quanto tra l’essere onnivori e l’essere univori, tra la disponibilità a consumare tutto e la selettività schizzinosa. L’élite culturale è viva e vegeta; è più attiva e appassionata che mai. Ma è troppo impegnata a inseguire il gran colpo e altri eventi famosi collegati alla cultura per trovare il tempo di formulare canoni di fede o per convertire a essi gli altri.

[…] Eppure, come affermava Pierre Bourdieu solo pochi decenni fa, ogni offerta artistica si rivolgeva di solito a una specifica classe sociale e solo a quella classe, ed era accolta soltanto, o in primo luogo, da quella classe. […] Secondo Bourdieu, le opere d’arte concepite per il consumo estetico rivelavano, segnalavano e proteggevano le divisioni di classe, evidenziando in modo leggibile e rafforzando i confini tra le classi. […] In La distinzione. Critica sociale del gusto (Il Mulino, 1983) Bourdieu presentava la cultura soprattutto come un utile strumento, utilizzato consapevolmente per marcare le differenze di classe e salvaguardarle: come una tecnica inventata per la creazione e la protezione di divisioni di classe e gerarchie sociali.

La cultura, in poche parole, era presentata un po’ come l’aveva descritta un secolo prima Oscar Wilde: “Coloro che scorgono bei significati nelle cose belle sono i colti. […] Essi sono gli eletti per i quali le cose belle significano unicamente bellezza”. “Gli eletti”, i prescelti, ossia coloro che cantano la gloria dei valori che essi stessi sostengono, e che al contempo sono sicuri della loro propria vittoria nel concorso canoro. Inevitabilmente essi troveranno bei significati nella bellezza, visto che sono loro a decidere cosa sia la bellezza. Già prima che la ricerca della bellezza iniziasse, chi, se non i prescelti, ha deciso dove cercare quella bellezza? […] I prescelti non sono scelti in forza della loro capacità di riconoscere ciò che è bello ma, al contrario, in forza del fatto che la dichiarazione “questo è bello” diventa vincolante proprio perché pronunciata da loro e confermata dalle loro azioni…

[…] Come presupposto da Bourdieu, la bellezza offre benefici e di essa c’è bisogno. Per quanto tali benefici non siano “disinteressati”, come suggerisce Kant, nondimeno di benefici si tratta; e se pure il bisogno non è necessariamente culturale, è tuttavia un bisogno sociale. Ed è molto probabile che sia i benefici che si ricavano sia il bisogno di distinguere la bellezza dalla bruttezza, ovvero la raffinatezza dalla volgarità, dureranno fin tanto che ci sarà il bisogno e il desiderio di distinguere l’alta società dalla bassa società, e l’intenditore di gusti raffinati dalle volgari masse prive di gusto, dalla plebe e dalla gentaglia…

[…] Si può dire che nell’età liquido-moderna la cultura (e in modo tutto particolare, benché non esclusivo, la sua sfera artistica) è conformata in maniera tale da corrispondere alla libertà individuale di scelta e alla responsabilità individuale di quella scelta; e che la sua funzione è di assicurare che la scelta sia e rimanga sempre una necessità e un dovere inderogabile di vita, e la responsabilità della scelta e delle sue conseguenze resti là dove la condizione umana liquido-moderna le ha poste: sulle spalle dell’individuo, chiamato ora al ruolo di amministratore capo della “politica della vita” e suo unico funzionario. […] La cultura oggi è costituita da offerte, non da proibizioni; da proposte, non da norme.

[…] La cancellazione dei rigidi standard e di ogni criterio imposto, l’accettazione imparziale e senza precedenze assegnate di tutti i gusti, una “flessibilità” delle preferenze (che è oggi il nome politicamente corretto della mancanza di spina dorsale) e la temporaneità e incoerenza delle scelte sono il marchio della strategia ora raccomandata come la più saggia e giusta. Il segno distintivo che connota l’appartenenza a una élite culturale è costituito oggi da un massimo di tolleranza e un minimo di schizzinosità. […] Il principio dell’elitismo culturale sta nella sua capacità di essere onnivoro, cioè di sentirsi di casa in qualunque ambiente culturale senza considerarne nessuno come casa propria, e ancor meno l’unica casa propria. […] Nella modernità liquida la cultura non ha un volgo da illuminare ed elevare; ha, invece, clienti da sedurre. La seduzione, al contrario dell’illuminismo e della elevazione, non è un compito che si esaurisce una volta raggiunto l’obiettivo, che si realizza una volta per tutte, ma è un’attività con un orizzonte aperto. La funzione della cultura non è di soddisfare bisogni esistenti, ma di crearne di nuovi, pur mantenendo allo stesso tempo bisogni già radicati o permanentemente insoddisfatti.

Estratto pubblicato sulla rivista Formiche di luglio 2016

Zygmunt Bauman

Per tutti i gusti

La cultura nell’età dei consumi

Laterza, 2016

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