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Come si è mossa la Turchia di Erdogan in Asia centrale

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Finalmente, a una settimana abbondante dalla strage di Capodanno al Reina di Istanbul, la Turchia è stata in grado di rivelare l’identità dell’attentatore, che nel frattempo ha cambiato nome e nazionalità quattro volte.

Si chiama Abdulkadir Masharipov, ha età compresa fra 25 e 30 anni, viene dall’Uzbekistan e il suo nome di battaglia è Ebu Muhammed Horasani. Da fine novembre si trovava nella città di Konya, una delle località più religiose della Turchia. A Istanbul sarebbe arrivato il 29 dicembre, tempo di immortalarsi nell’ormai celebre video in Piazza Taksim e pianificare la strage. Il killer si trova ancora a piede libero. Di lui si sono perse le tracce e se qualcuno ritiene che viva protetto nel quartiere di Zeytinburnu, a Istanbul, altri pensano che potrebbe avere già varcato il confine ed essere tornato in Siria.

Quello che la Turchia non ci ha detto, e se ne guarda bene dal farlo, è che di persone come Abdulkadir Masharipov nel Paese ce ne potrebbero essere a centinaia. Si tratta della parte forse meno nota, ma non meno pericolosa, della politica estera che Ankara ha praticato in tutti questi anni.

Era il 2003, Recep Tayyip Erdogan era diventato da poco primo ministro per la prima volta. Grazie all’aiuto di Fethullah Gülen, proprio colui che da luglio siamo abituati a conoscere come il nemico numero uno della Turchia, ma che a quei tempi era il miglior alleato del Presidente della Repubblica, Erdogan ha iniziato un’attività sempre più espansionistica in Asia Centrale.

Uzbekistan, Kirghizistan, Turkmenistan. Tutte terre un tempo sotto il controllo sovietico, tutti posti dove, per motivi religiosi, linguistici e in parte etnici il legame con la Turchia era fortissimo. Terre potenzialmente ricche e ancora incontaminate dal punto di vista economico e commerciale. Così vicine in qualche caso a quello Xinjiang, in Turchia chiamato Dogu Turkistan, quella regione della Cina che parla una lingua derivante dall’ottomano e che è da sempre motivo di attrito fra Ankara e Pechino.

Grazie all’ottima fama di cui godevano le scuole di Gülen, Erdogan ha iniziato a organizzare missioni in questi Paesi alle quali partecipavano decine di imprenditori appartenenti al cerchio magico allora in voga, poi cambiato nel corso degli anni fino a mutare radicalmente dopo il golpe, quando imprenditori gulenisti o presunti tali, un tempo in auge, sono finiti in galera o nella migliore delle ipotesi privati della loro azienda.

Non però dal 2003 al 2010, quando furono avviati scambi culturali e commerciali che in pochi mesi portarono decine di studenti provenienti da queste ex repubbliche sovietiche in Turchia a studiare. Tutti grati alla Mezzaluna, che offriva una possibilità concreta di formarsi e stabilirsi nel Paese. Ankara così cercava di ritagliarsi una sfera di influenza in una zona storicamente appannaggio della Russia.

I voli di Turkish Airlines verso questi Paesi si moltiplicavano, gli scambi erano costanti. Peccato che, fra queste persone che andavano e venivano ve ne fossero come Abdulkadir Masharipov, che, grazie a tutti quelli che avevano avuto la possibilità di trasferirsi regolarmente per studiare o lavorare, trovavano uno stallo sicuro per organizzare il loro network. Mosca negli anni passati ha più volte fatto sapere ad Ankara che non era per niente contenta di quei traffici. In Turchia erano attive, ma innocue per il Paese, cellule terroristiche particolarmente sgradite a Vladimir Putin, che si ricongiungevano al terrorismo ceceno.

Adesso che il problema è comune, la Turchia si trova un’altra volta a fare i conti con una politica estera troppo esuberante, dove a una liberalizzazione dei visti e una vivacità nelle relazioni, non si è mai contrapposto il rischio che si correva ad aprire troppo le porte di casa. O, peggio ancora, si era consapevoli che si stava scherzando con il fuoco, ma si è andati avanti perché certi che non sarebbe mai toccato alla Mezzaluna pagarne le conseguenze.

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