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Vi racconto l’arcipelago dello jihadismo (non solo Isis)

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“Arcipelago Jihad. Lo Stato islamico e il ritorno di al-Qaeda” di Giuliano Battiston (Edizioni dell’Asino) racconta una storia del jihad, che parte dall’Afghanistan degli anni Ottanta, culla del jihadismo, e arriva ai foreign fighters che oggi colpiscono il cuore dell’Europa. In mezzo, la nascita di al-Qaeda e il “parricidio” che ha dato luogo all’Isis – aprendo le porte a un mondo jihadista multipolare e a una sanguinosa lotta per l’egemonia -, l’utopia del Califfato, l’analisi della sua governance interna e la sofisticata propaganda esterna per il reclutamento.

Cosa ha di diverso rispetto agli altri libri del genere? Ci fa capire che Daesh è solo una delle organizzazioni che possono originare dal terrorismo, ma non è la sola; intreccia l’analisi storica alla narrazione biografica di otto leader, cruciali per la nascita e lo sviluppo del jihadismo (i comandanti militari, che rappresentano i gruppi egemoni e i pensatori che ne hanno ispirato l’ideologia) e infine dimostra la forza superiore di al-Qaeda, a dispetto del protagonismo militare e mediatico di Isis: “Sembra quasi che l’organizzazione terroristica di al-Zawahiri sia scomparsa, ma l’occultamento è una scelta strategica, di radicamento sociale e non di esibizione muscolare”, ha detto l’autore, intervistato da Formiche.net.

AFGHANISTAN, CULLA DEL JIHADISMO

Tutte le strade della jihad portano in Afghanistan”, potrebbe essere il pay off del libro. Studiando le strategie di addestramento contro l’occupazione sovietica dal ‘79 al ’89, si nota come proprio in quel momento i guerriglieri siano riusciti a costruire un mito intorno alla resistenza”, dice Battiston.

Quello del ricercatore e giornalista freelance (l’“espresso”, “il manifesto”, “pagina99”, l’agenzia Inter Press Service, “minima&moralia”, fra gli altri) è un quadro aggiornato su ciò che sta avvenendo nello Stato islamico, e che trova origine proprio nella guerra dei mujaheddin contro l’Unione Sovietica e la RDA: “Esiste un jihad bipolare, con due attori forti, al-Qaeda e Isis, che mettono in atto un modus operandi cominciato in Afghanistan nell’89”, spiega. “Quel jihad è di natura diversa da quello che si fa altrove: ci sono molti movimenti antigovernativi, il più importante dei quali è quello formato dai Talebani, che portano avanti una battaglia interna ai confini nazionali e vogliono affrancarsi dalle truppe straniere; c’è un sostegno esterno da parte di attori istituzionali e non, e anche fra Talebani e al-Qaeda c’è una sinergia”. Diversa, invece, è l’ottica dei terroristi a vocazione globale, “secondo cui la jihad non deve limitarsi a difendere gli ideali islamici solo nei territori in cui vige l’occupazione straniera, ma deve avere mire universalistiche e coinvolgere tutta la ummah (comunità)”.

LA NATURA MULTIPOLARE DEL TERRORISMO ISLAMISTA

La spaccatura ideologica e generazionale creata dal distacco di Isis da al-Qaeda, a opera di Musab al-Zarqawi, ha aperto un antagonismo fra le due organizzazioni. Oggi, modalità di comunicazione e di espansione diverse si accompagnano a un fine comune, l’instaurazione del Califfato. Al-Qaeda è più moderato, Isis è più violento e deciso: “Lo Stato islamico punta a un’espansione territoriale basata sugli attentati contro chiunque si opponga al suo progetto, con la convinzione che la violenza, e la sua esibizione, producano consenso politico”. Più Daesh perde terreno nei suoi territori, infatti, tanto più si faranno frequenti gli attacchi all’esterno. Al-Qaeda, di contro, punta al radicamento sociale “e si mette a servizio delle lotte locali, perchè è convinto, già lo diceva l’ultimo Bin Laden, che affinchè il jihad sia efficace, sia necessario conquistare il consenso delle masse. Senza questo, anche l’istituzione di un califfato è destinata a scomparire presto”.

I COMANDANTI

Il volume racconta poi chi sono veramente i capi militari dietro il terrorismo islamico e come sono diventati gli strateghi delle organizzazioni criminali più temute del pianeta: “In primis, Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri, che ha preso il suo posto a capo di al-Qaeda. A soli 15 anni forma la prima cellula jihadista in Egitto, oggi ha 68 anni e ha 50 anni di jihad alle spalle. E poi altri due personaggi che rappresentano lo Stato islamico, Musab al-Zarqawi (l’ispiratore della jihad contemporanea, capo di al-Qaeda in Iraq, che poi darà origine a Isis), e Abu Bakr al-Baghdadi (il califfo dello Stato islamico)”.

I PENSATORI

Battiston indaga poi nelle matrici ideologiche del jihad, analizzando le biografie di Sayyid Qutb, Abu Muhammad Al-Maqdisi, Abdullah Azzam e Abu Musab al-Suri. “Sayyid Qutb fu uno dei più importanti ideologi dei Fratelli musulmani, l’ispiratore del takfirismo politico; circoscrisse sempre di più la ‘vera identità islamica’ e criticò i regimi arabi musulmani del suo tempo come corrotti e falsamente islamici”, spiega. Abdullah Azzam è stato l’ispiratore di Osama bin Laden, il suo slogan era “il jihad e il fucile e nient’altro: niente negoziati, niente conferenze, niente dialoghi”. Il suo pensiero si differenzia da quello di Sayyd Qutb per l’invenzione dell’esportazione della jihad: ogni musulmano deve impegnarsi per scacciare gli infedeli, ovunque si trovi, non solo nei territori occupati. Abu Muhammad Al-Maqdisi è considerato uno dei maggiori esponenti della battaglia ideologica e dottrinale contro Isis, mentore di al Zarqawi e sostenitore dell’attuale capo di al-Qaeda, al Zawahiri. Infine Abu Musab al-Suri, che “rispetto all’ortodossia ideologica di capi precedenti, è molto pragmatico”, dice l’autore. “Recupera strategie del maoismo, critica l’attentato dell’11 settembre, che ha portato al rovesciamento regime islamico in Afghanistan e propugna un jihad diffuso, costituito da cellule accomunate dall’ideologia”.

Se la storia dello Stato islamico dimostra “una duttilità strategica e una corrente rivoluzionaria forte, che gli hanno permesso già di sopravvivere a periodi ancora più difficili di quelli attuali, ad esempio tra il 2007 e il 2010”, sottolinea il ricercatore, “è anche vero che il principale fattore di appeal e di mobilitazione principale – l’edificazione di uno Stato islamico ammantato di un’aura di invincibilità – sta venendo meno a causa della controffensiva militare”. Quanto a chi invece in Europa potrebbe essere inclinato ad aderire alla causa jihadista, “la prima cosa da fare è asciugare i sebatoi che alimentano il reclutamento: puntare sull’inclusione, far sentire tutti partecipi della stessa nazione, piuttosto che erigere barriere identitarie”.

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