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Norma acchiapparicchi, ecco come e perché eccita le società di calcio

La fretta nel licenziare la Legge di Bilancio 2017 negli ultimi giorni del Governo Renzi non ha favorito un approfondito dibattito sulle disposizioni introdotte. Nelle prime settimane di dicembre erano ben altri gli argomenti a tenere banco, dalla scoppola rimediata da Matteo Renzi al referendum costituzionale alle sue dimissioni con il testimone passato a Paolo Gentiloni.
Tuttavia, tra le novità del maxi-provvedimento passate in sordina, c’è  la cosiddetta norma “acchiapparicchi”, l’imposta sostitutiva e forfettaria da 100mila euro su redditi realizzati fuori Italia (più altri 25mila per ogni familiare a carico) per quelle persone fisiche da almeno 9 anni residenti all’estero che decidono di trasferire la loro residenza nel nostro Paese (qui la prima anticipazione del Sole24Ore e qui l’approfondimento di Formiche.net).

L’INTERESSE DEI GRANDI CLUB DI CALCIO (E NON SOLO)

Secondo alcune indiscrezioni raccolte da Formiche.net, la norma “acchiapparicchi” farebbe gola non soltanto a importanti imprenditori e manager, grossi investitori e mecenati, bensì anche ai top player dello sport internazionale. A partire dai pezzi da novanta del calcio mondiale, professionisti del pallone che guadagnano svariati milioni di euro all’anno e devono fare i conti con le maglie del Fisco degli Stati in cui giocano. Per questo, i club italiani più blasonati hanno visto di buon occhio il via libera al provvedimento, convinti che li possa agevolare nel tentativo di attrarre quei grandi campioni che troppo spesso rifuggono il calcio italiano e non solo per motivi strettamente professionali e sportivi. Va da sé che anche i big di altre discipline possano usufruire di questo regime sostitutivo di favore, scegliendo di svolgere la loro attività in Italia portandovi la residenza per pagare meno tasse che altrove. Si capisce quindi perché, stando ad alcuni rumors che circolano nei corridoi delle principali società calcistiche italiane, la norma “attirapaperoni” (è un altro dei nomignoli affibbiatigli) sia stata attesa con trepidazione e speranza, e la sua approvazione sia stata salutata – seppure in maniera discreta – con grande soddisfazione.

IL DIBATTITO TRA ESPERTI

Tra gli addetti ai lavori, non sono mancati i sostenitori della norma. E’ il caso dell’avvocato Antonio Tomassini dello studio legale internazionale DLA Piper che in Italia opera nelle sedi di Milano e Roma, intervenuto più volte sul Sole24Ore per perorare questa causa (l’ultima è stata il 9 dicembre a doppia firma con Alessandro Martinelli, qui l’articolo), che pure a Formiche.net aveva spiegato l’idea di fondo: “portare in Italia capitali di persone molto ricche le quali senza questo regime favorevole non avrebbero mai trasferito la loro residenza, e quindi i loro soldi, nel nostro Paese”.
Non sono mancate le posizioni più critiche. Se su alcuni giornali la norma non ha goduto di grande apprezzamento (Repubblica ha parlato di un “traghetto per ricchi” pensato per “lucrare qualcosa dalle conseguenze della Briexit”), sullo stesso Sole24Ore si sono fatti sentire due docenti di Diritto tributario dell’Università La Sapienza di Roma, Pier Luca Cardella ed Eugenio della Valle, che il 7 gennaio scorso (qui l’articolo) hanno avanzato alcuni rilievi. “La sua ragion d’essere – scrivono – dovrebbe consistere in una particolare prospettiva extra-fiscale che mira a favorire il radicamento nel nostro Paese di capitali ‘nomadi” con conseguente, auspicabile rafforzamento dell’apparato produttivo nazionale. Si tratta, in poche parole, di una sorta di calamita impositiva che risponde a una logica che, in passato, ha già superato il vaglio di costituzionalità”. “Siamo dentro al cospetto di una entry tax di favore – aggiungono – la cui legittimità costituzionale va scrutinata anche in punto di coerenza e, su questo fronte, evidenti sono i rotoli di criticità”. Secondo Cardella e della Valle, la stessa misura del tributo (“100mila euro quale che sia l’importo dei redditi posseduti”) sarebbe da rivedere. “L’abbandono del paradigma dell’imposta variabile – dicono infatti – desta perplessità giacché si mette in discussione, senza una plausibile giustificazione concettuale, uno dei capisaldi del sistema di imposizione del reddito”. Quindi la chiosa: “Non si può certo rinunciare al collegamento, richiesto dall’articolo 53 della Costituzione, tra l’entità del sacrificio richiesto a ciascun consociato e la dimensione quantitativa dell’indice di forza economica allo stesso riferibile”.

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