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Perché ora è la Germania di Angela Merkel ad aver bisogno dell’Italia

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Per una curiosa legge del contrappasso, questa volta, è la Germania ad aver bisogno dell’Italia. Piuttosto del contrario. Nell’ipotesi di giungere quanto prima a un triunvirato, per la gestione dell’agenda europea, che comprenda i tre Paesi fondatori – quindi l’Italia oltre la Francia e la stessa Germania – traspaiono tutte le difficoltà di Angela Merkel. Dalla quale, per altro, nel recente incontro con Paolo Gentiloni, è partita la proposta. Certo: Matteo Renzi, con l’incontro sulla portaerei Garibaldi, al largo dell’isola di Ponza, aveva aperto la strada. Ma quel meeting aveva avuto principalmente un significato simbolico. Le cui potenzialità fatte subito decadere nel successivo vertice di Bratislava, quando le richieste italiane per giungere a una gestione europea del problema immigrazioni, erano naufragate.

Oggi la Merkel cerca di ricucire quel vecchio rapporto. Sebbene l’Italia si presenti inadempiente per quanto riguarda le regole di Maastricht. Al punto da costringere la Commissione europea a richiedere una manovra correttiva di 3,4 miliardi. Con uno sconto implicito, visti i referti tecnici della stessa Commissione che evidenziavano uno scarto ben più consistente: dell’ordine di 5 miliardi. Bastone e carota, quindi. Con una decisa prevalenza di carezze, considerato il via libera al salvataggio di Mps. A sua volta frutto di un altro compromesso. Lo Stato interviene sul puzzle bancario italiano. Ma sui titoli tossici, in pancia a Deutsche Bank si stende un velo pietoso.

Arte del compromesso: il sale della politica. Ma non è solo questo. Ad imporre un atteggiamento diverso dal passato – quando la Bundesbank voleva come garanzia l’oro della Banca d’Italia per concedere prestiti allo Stato italiano – sono i mutamenti che si intravedono nei grandi equilibri geopolitici. Già nel corso di quest’anno il mondo sarà profondamente diverso da quello che siamo abituati a vedere. Parola di Xi Jinping, il leader cinese che, dalle montagne di Davos lancia il suo monito: “Nelle guerre commerciali, non ci sono vincitori”. Altro paradosso se si considera da che pulpito viene la predica. Stiamo infatti parlando del’ultimo Stato comunista, in cui le regole di mercato valgono solo se sono favorevoli alle terre del Celeste impero.

Angela Merkel deve quindi misurarsi con fenomeni di questa portata. E deve farlo pur essendo prigioniera di una tradizione, che si fonda su presupposti del tutto opposti. Esiste, infatti, un conflitto latente con il resto dei Paesi occidentali, che risale, addirittura, agli anni ’70. L’epoca del stagflation – quel misto di inflazione e stagnazione – che fu conseguenza dell’improvviso rialzo dei prezzi del petrolio, voluto dai Paesi produttori, allora riuniti nell’Opec. Da quel momento la pressione degli Stati Uniti e del Fmi per imporre al più forte Paese europeo una politica espansiva, che riducesse il peso degli avanzi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, fu continua. Ma anche inconcludente. Il governo tedesco e la Bundesbank respinsero al mittente le proposte avanzate. La Germania, granitica nella difesa della stabilità monetaria, non era assolutamente disponibile a fare da “locomotiva”. Lasciando l’ingrato compito ai soli Stati Uniti d’America.
Né le cose cambiarono con la riunificazione. Al contrario il finanziamento dell’ex Rdt fu favorito da una politica monetaria estremamente restrittiva, che consentì di drenare risorse finanziarie dal resto dell’Occidente e quindi accelerare il processo di integrazione economica e sociale dei nuovi territori. Anche se la conseguenza di quella politica sul resto dell’Europa fu devastante: la crisi dello Sme – il Sistema monetario europea – cui fece seguito la svalutazione della sterlina e quella della lira italiana. Oltre che un lungo periodo di turbolenza valutaria che interessò il resto dell’Europa. Episodi che non sono stati dimenticati.

Per capire la Brexit bisogna anche rifarsi a quegli avvenimenti. L’atteggiamento inglese nei confronti della Germania, ad esempio, lo si ritrova in un libro di successo di Brendan Simms dal titolo “Europe, the struggle for supremacy”. Nel testo si traccia il profilo di quell’Europa a trazione tedesca, segnata da una “supremazia” che è cosa diversa dall’egemonia. Puro dominio, nel primo caso. Bilanciamento di oneri e onori, nel secondo, secondo la corretta interpretazione di Charles Kindleberger. Dietro il “leave” c’è stato quindi il rifiuto di un modello – quello europeo – segnato da una cultura dominante, d’impronta teutonica, in aperto contrasto con lo spirito di quel capitalismo anglosassone. Che è caratteristica comune tra le due sponde dell’Atlantico. Nodi che, ora, stanno venendo al pettine.

Negli anni passati, la comunità finanziaria internazionale, con alla testa gli Stati Uniti, ha mostrato una pazienza degna dei certosini. Moniti, pressioni felpate, rimbrotti: tutti tesi a scuotere l’albero degli eccessi di austerità. Ma ancora oggi l’attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti tedesche è pari all’8,8 per cento del Pil. Superiore a quello della stessa Cina. Quasi cinquant’anni trascorsi inutilmente. Ci voleva quindi Donald Trump, con il suo “politicamente scorretto”, per rompere gli indugi. E ora la Germania si trova con il fianco scoperto. In un’Europa resa più debole sia dal “leave” inglese, che dalla rinnovata presenza di Putin, rispetto al quale il nuovo presidente americano non sembra dimostrare le idiosincrasie del passato. Ed ecco allora la chiamata alle armi da parte di Angela Merkel. Con quella sua richiesta di “direttorio a tre”, che coinvolge anche il nostro Paese. Mossa per lo meno tardiva, se non si accompagnerà a cambiamenti profondi di una tradizione – il mito della propria ed esclusiva stabilità interna – che sembra aver definitivamente fatto il proprio tempo.

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