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10 motivi per cui Donald Trump piace (e 10 per cui è detestato)

Il discorso di insediamento di Donald Trump è stato commentato fino allo sfinimento, analizzando “cosa’”ha detto. Ma altrettanto importante è stato il “come”: un inglese comprensibilissimo, scandito in maniera molto chiara, parola per parola, forse perché il presidente aveva imparato il discorso un po’ a pappagallo e lo ripeteva come uno scolaretto che vuol fare bella figura.

Negli Usa il politically uncorrect che Trump incarna con la sua ineleganza persino somatica conta su alcuni testimonial d’eccezione, tanto bravi e intelligenti che nemmeno gli avversari possono permettersi di ridicolizzarli: da Wilbur Smith a Tom Wolfe, Clint Eastwood, Gay Talese, James Ellroy. Quindi anche un elettore americano colto e intelligente si è sentito confortato nello scegliere questo presidente “impresentabile”.

Il coro di istituzioni e leader internazionali allestito contro Trump in campagna elettorale, e anche dopo, lo ha reso ancor più simpatico a chi questi “vertici” e “capi” ha in antipatia per le più varie ragioni: pensiamo agli endorsement al contrario di personaggi come Zeid Ra’ad al-Hussein, alto commissario Onu per i rifugiati. E a quelli di David Cameron, François Hollande, Christine Lagarde…

Analogo discorso vale per i ripetuti boicottaggi di artisti, stilisti e intellettuali contro il nuovo presidente. Meryl Streep, la compagnia delle Rockettes, Andrea Bocelli, il Volo (che potremmo ribattezzare il Voto), George Clooney, Leo Di Caprio… La sequela di polemiche, tra personaggi che hanno preso posizione contro Donald o massacrati per non averlo fatto, ha rafforzato la convinzione diffusa che lo show biz sia popolato da bizzosi (per l’appunto).

Il racconto apocalittico “acchiappa” di più, così come dipingere i cattivi più cattivi di quanto siano, ma si sottovalutano due rischi: l’‘al lupo, al lupo’ e il fascino del male. Titoli come “Se vince Trump sarà la fine della civiltà?” hanno probabilmente sortito effetti nulli o addirittura contrari. Osserva giustamente Diego Bianchi alias Zoro: “Trump non si batte dandogli del cafone, non è bastata la lezione di Berlusconi?”.

Ribadiamolo: come per la Brexit e per tante altre occasioni (ormai i sondaggisti sanno che il voto ‘di destra’ agli exit poll è sottostimato), media, osservatori ed esperti non ci hanno preso, continuando a misurare il mondo con il proprio metro intellettuale e progressista. I giornalisti sono più a sinistra degli italiani, come hanno scritto in molti producendo dati al riguardo. Federico Rampini lo aveva argutamente previsto prima del voto, pur continuando a vaticinare un’affermazione di misura della Clinton: “Non ci posso credere: a qualcuno piace Trump […] E per tutti noi (giornalisti e liberal delle due coste) non capirlo è stato un errore”. Anche qui il paragone con Berlusconi è calzante.

Ad essere fortemente miope è anche gran parte del progressismo politico. “La sinistra è cieca”, dice il Corriere della sera in riferimento a “migranti e tecnologia”. Ma pensiamo al caso sempreverde della scuola, con la recente decisione di portare alla maturità i ragazzi con la sufficienza di media, includendovi persino il voto di condotta. Simili imposizioni top down a maggioranze contrarie, alienano il consenso popolare più di ‘normali’ ruberie e inefficienze politiche e spiegano in modo e misura diversi i successi di Viktor Orban in Ungheria, Jaroslaw Kaczynski in Polonia e tanti altri.

Con Trump non ha vinto la destra, anzi. Sui social e sul web circolano commenti inferociti di destrorsi duri, puri ed estremi che non vogliono essere confusi con il nuovo presidente e i veri candidati di destra, alle primarie, erano altri: dalle presidenziali il Partito repubblicano esce sconquassato non meno delle istituzioni politiche tutte (anche se Donald, dai suoi migliori predecessori di partito alla Casa Bianca, qualcosa l’ha acquisita). Com’è emerso ancor più evidentemente dopo il discorso programmatico, Donald afferisce a una nuova dimensione culturale più che politica, in attesa di definizione, che qualcuno chiama alternativa tra “sistemi aperti e sistemi chiusi”. Accettare o rifiutare la globalità, il mondo meticcio? Sarebbe ovviamente meglio gestirli, ma ormai, purtroppo, prevalgono le due demagogiche facilonerie contrapposte.

Donald Trump è un mediocre, ma il potere è spessissimo dei mediocri. Lo sa benissimo chi abbia frequentato anche occasionalmente qualche leader politico. Lo articola in un saggio tradotto come ‘La Mediocrazia’ il filosofo canadese Alain Deneault.

La cosa più dura da digerire anche per chi non abbia ostilità preconcette è che Trump incarna perfettamente la devastante tendenza della comunicazione a veicolare e incoraggiare qualunque fesseria, battuta, volgarità, stupidaggine a chiunque venga in mente: in italiano si dice “dare fiato alla bocca”, a Roma “non tenere un cece in bocca”. Rifiuto del fair play, insulti espliciti alla Clinton, la minaccia di non accettare l’esito del voto in caso di vittoria dell’avversaria, bugie sparate e contraddizioni superate senza imbarazzo (tranne che per errori più gravi come il discorso di Melania copiato da Michelle), provocazioni molto dure, capacità di colpire la pancia (lo spiega bene il linguista George Lakoff), di adattarsi ai ritmi dei social. È quello che ha fatto vincere il presidente. Ed è quello che spesso facciamo o proviamo a fare quasi tutti, dai politici ai troll. Donald ci somiglia molto più di quanto vogliamo ammettere.

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