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Virginia Raggi fra cronaca e storia di Roma

Virginia Raggi chiede tempo. Tempo necessario per aggredire i drammatici problemi di Roma, dopo anni di abbandono. Richiesta giustificata. Nessuno è attrezzato per realizzare quei miracoli che sarebbero necessari. Lo dimostra, ancora una volta, l’ultimo dossier della Cisl. Quindi si evitino le inutili polemiche, nonostante gli errori finora commessi. A partire dalla vicenda Marra e le incertezze dimostrate nel comporre una squadra di governo in grado di operare. Sbagli, comunque, ammessi dalla stessa sindaca. Tuttavia la semplice apertura di credito non basta. Come è insufficiente cavalcare, da parte di tutto il movimento, la sola tesi della discontinuità. Pietro Ignazi, sulla Repubblica, ne ha paragonato l’ascesa, ai casi di Forza Italia e della Lega. Anche allora si trattò di una rottura con le esperienze precedenti. Con una differenza, tuttavia. Il contestuale emergere di una metodica e di una impostazione programmatica diverse dal lascito della Prima Repubblica.

Chiedere a Virginia Raggi qualcosa di analogo è forse eccessivo. Per realizzare qualcosa di simile sono necessarie qualità straordinarie, che forse latitano. C’è poi un problema di base, ancora più serio. Gli stessi abitanti di Roma e quindi quegli elettori, che hanno assicurato il successo dei Cinque stelle, non hanno una grande consapevolezza dei problemi di fondo, che avvelenano la città. Ne vivono il degrado, ne subiscono il malgoverno, sono angariati da tasse – le più alte d’Italia – e mortificati da servizi che definire tali è solo un eufemismo. Ma non sono in grado di percepire le ragioni più profonde che sono all’origine dei tanti guai. Colpa soprattutto di una classe dirigente – quella passata e quella attuale – improbabile. E comunque chiusa in un proprio asfittico, per dirla con il Guicciardini, “particulare”.

Rompere questo schema non è facile. Per alzare l’asticella del confronto è necessario guardare a Roma con gli occhi delle altre Capitali europee. Da Londra a Parigi, da Madrid a Berlino. Ed interrogarsi sul perché Roma non può essere inclusa in questo elenco. Rispetto al modello prevalente, che le caratterizza, l’anomalia romana è, al tempo stesso, vistosa ed inquietante. Le ragioni sono soprattutto storiche. Le altre sono Capitali di una Nazione che ha consapevolezza di sé. Nel degrado romano si riflette, invece, la mancanza di Stato. Che, a sua volta, è figlia di un sentimento nazionale debole dovuto alla prevalenza delle due culture che hanno dominato la nostra storia nazionale, nell’immediato dopoguerra: l’ecumenismo della Chiesa cattolica e l’internazionalismo proletario.

La Roma risorgimentale e quella fascista aveva avuto un’impronta diversa. Al punto che le grandi opere che ancora consentono alla città di muoversi sono figlie di quell’esperienza: dall’imbrigliamento del Tevere, ai grandi sventramenti haussmanniani, alla nascita dell’Eur. Solo per citare qualche esempio. Il loro retroterra politico – culturale era stato, da un lato, la necessità di trasformare la Roma papalina, circoscrivendo il perimetro della suburra. Dall’altro la celebrazione dell’Impero. Comunque l’idea che la Capitale del Regno o dell’Impero dovesse celebrare la grandezza dello Stato. O se si preferisce, del regime. In ogni caso il trionfo della Nazione. Spirito che si è perso nella Roma repubblicana. Naturalmente, anche allora, non erano mancati limiti e contraddizioni. Si pensi solo alle borgate: frutto dell’idiosincrasia mussoliniana verso gli eccessi di urbanizzazione, che avrebbero comportato la nascita di un proletariato urbano.

Che cosa raccontano questi episodi? La cura della Capitale non può essere un affare lasciato solo ai suoi abitanti. E’ lo Stato che deve intervenire per curarne il necessario sviluppo. Così almeno si comportano tutti i Paesi occidentali in Europa e negli stessi Stati Uniti. Occorre pertanto trovare le formule istituzionali più appropriate per garantire le necessarie sinergie e collaborazioni tra il Governo centrale e gli istituti dell’autogoverno locale. Esse possono variare, ma secondo uno schema che andato consolidandosi: dalla città stato di Berlino, alla Grand Paris o la Municipalidad di Madrid. Per non parlare della Greater London. Solo Roma è rimasta non la capitale dello Stato, ma il semplice capoluogo della Regione Lazio. E non basta certo fregiarsi del titolo di “Roma Capitale” per risolvere il problema.

Nel Movimento 5 stelle esiste qualcosa, un semplice barlume, che possa far intuire l’avvio di una qualche riflessione? Purtroppo, no. Ed allora il ritardo, che oggi i cittadini romani vivono, non è solo il riflesso di carenze operative, ma della mancanza di una visione che, pur con i tempi necessarie ed anche incomprimibili, possa far pensare a quella svolta, che la semplice discontinuità politica, da sola, non garantisce. C’è purtroppo un episodio che da forza al nostro ragionamento. Il rifiuto di presentare la candidatura della città alle prossime Olimpiadi. Non era solo un fatto romano. In gioco c’era anche il prestigio dello Stato italiano. Aver fatto naufragare l’operazione, si è tradotto in una frattura nel rapporto tra le due istituzioni – il Comune ed il Governo nazionale – che sarà difficile sanare. E che quindi continuerà ad isolare la Capitale dal resto della Nazione.

Le motivazioni adottate, tipiche di una cultura da strapaese, non avevano fondamento. C’era il pericolo del malaffare? C’era anche per l’Expo di Milano. Vi si poteva rimediare, seppure in parte, con adeguate cautele. Ma c’è un episodio nella storia di Roma, che non può essere dimenticato. Il quartiere Prati, con le sue strutture ortogonali, fu figlio di quella grande speculazione edilizia che portò al fallimento della Banca romana. E che coinvolse personaggi di primo piano della dirigenza risorgimentale: Crispi e Giolitti. Il malaffare è passato. Il quartiere è rimasto. Il Movimento 5 stelle dovrebbe quindi riflettere. Si prenda pure il tempo necessario per attuare le scelte operative. Ma nel frattempo ci faccia capire. Se nelle sue bisacce c’è fieno sufficiente per alimentare una speranza di futuro. Oltre la giusta critica verso il passato.

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