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Perché io, sovranista d’antan, non plaudo Trump sui rifugiati

malgieri, francia, marine le pen

Sono migliaia gli arabi-musulmani che hanno collaborato (e combattuto) con gli americani in Medio Oriente, in Africa, in Asia. Vedersi respinti dalla nazione che hanno, con grandi sacrifici e sfidando non pochi rischi, contribuito a difendere dall’offensiva del terrorismo jihadista è stato come sentirsi traditi. Dagli interpreti a chi faceva il “lavoro sporco” per i soldati americani in Iraq o nello Yemen, dagli informatori infiltrati nelle organizzazioni islamiste agli intellettuali filo-occidentali che sfidavano la censura degli ayatollah in Iran, dalle famiglie che sognavano di ricongiungersi con i familiari esiliati o rifugiati negli USA ai tantissimi giovani che speravano di farsi una vita, studiando e lavorando, nel Paese che prometteva di “liberarli”, il voltafaccia di Donald Trump è vissuto come un vero e proprio gesto di inimicizia.

E’ partito con il piede sbagliato il presidente americano firmando il decreto che vieta l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di sette Paesi islamici (non tutti arabi, visto che c’è anche l’Iran). Ed è curioso che nell’elenco, stilato con quale criterio non sappiamo, non compaiano quegli Stati che finanziano l’Isis, a cominciare dall’Arabia Saudita e finendo a qualche Emirato limitrofo con i quali l’America ha fatto e continua a fare affari. Stati, ricordiamolo agli immemori, dai quali provenivano la maggior parte degli assassini dell’11 settembre 2001.

Che cosa ha voluto provare Trump con questa sua iniziativa che ha scatenato la reazione perfino degli alleati più fedeli, come la Gran Bretagna? Di essere più forte ed impermeabile alle critiche soltanto perché ha promesso maggiore sicurezza? Se è così ha commesso un errore. Ha provocato disagio e non ha raccolto le simpatie che sperava nel suo stesso Paese.

Le porte degli USA non sono mai state aperte come quelle europee. Per arrivare in America dalla Libia o dalla Siria o dallo Yemen spesso ci vogliono almeno due anni di accertamenti sulle persone che chiedono i visti e talvolta non basta: la “radiografia” continua all’arrivo dove i controlli sono rigorosissimi. E’ ben difficile che un terrorista di Daesh cominci oggi l’iter legale per raggiungere la nazione nemica dove preparare un attacco che potrebbe essere portato a compimento tra molto tempo, magari fuori contesto e dunque inutile se non impossibile.

Trump non si rende conto che l'”invasione” avviene per altre vie. Con il reclutamento, per esempio, attraverso l’indottrinamento telematico. Ed i terroristi l’America, come altre nazioni, se li fabbrica in casa. E’ sul piano culturale e politico, dunque, che bisognerebbe agire, non certo con misure di polizia che dalle parti di Raqqa nessuno pensa di sfidare non considerandosi dei fessi.

Le famiglie rimaste in ostaggio negli aeroporti, dopo l’emanazione del decreto esecutivo presidenziale, in che maniera avrebbero potuto costituire pericoli mortali per gli americani? E perché per gli altri Paesi non è stato adottato lo stesso criterio (a parte l’Arabia Saudita privilegiato partner degli USA) dall’Indonesia e dalla Nigeria, per esempio? Forse Boko Haram è meno attivo di Hamas? C’è qualcosa che ci sfugge. Mentre comprendiamo benissimo che Trump vuole mostrarsi, con atti plateali e divisivi (il muro con il Messico fa ridere…), quale interprete della “dottrina di Monroe” aggiornata e rafforzata al fine di rilanciare un’idea americanocentrica intorno alla quale costruire la sua politica internazionale.

Se è così, non si rende conto che nel mondo multipolare non è prevista la supremazia assoluta – politica, economica, civile, culturale – di nessun Paese e di nessuna area. Ogni Stato ha il diritto di influenzare chi vuole e porsi come riferimento geopolitico e strategico. Ma nel ricordare a chiunque l’ambizione di poter essere autosufficienti e ricorrere all’esclusione per rafforzare orgogliosamente l’identità americana (quale sia ancora non l’abbiamo capito a dire la verità, vista la composizione etnico-culturale della nazione) non c’è bisogno di rilanciare, come Trump forse al di là delle sue stesse intenzioni sta facendo, il tema dello “scontro di civiltà” che fin da quando venne formulato da Samuel Huntington è stato il banco di prova della capacità di importanti aree del Pianeta di relazionarsi sulla base di esigenze comuni come la povertà, il clima, la religione.

Arrivare oggi ad infestare lo scenario politico con un’aggressione al bene comune, costituito dalla salvaguardia della civile convivenza e, dunque, dall’unione delle forze contro chi vorrebbe dominare una parte del mondo con il terrore, è un errore che soprattutto l’Occidente potrebbe pagare assai caro.

Possiamo soltanto immaginare quanto i miliziani di Abu Bakr al-Bagdadi ed i qaedisti sparsi tra il Mediterraneo, l’Africa nord-occidentale e l’Asia centrale abbiano gioito alla notizia del “blocco” degli immigrati decretato da Trump. Un formidabile assist che non mancherà di essere speso tra le masse islamiche già diffidenti delle politiche di appeasement con l’Occidente dei loro governi. Avranno facile gioco i jihadisti a sobillare coloro i quali nello scontro di civiltà vedono la strada storta per uscire dallo stato di minorità nel quale vengono tenuti dagli stessi governanti che di fatto li schiavizzano. Paradossi della storia assecondati da chi la storia la conosce poco e male.

Il patriottismo non si pratica chiudendo, vorremmo sommessamente ricordare ai neo-sovranisti europei, ma aprendo e confrontando le diverse identità nell’ambito di una visione culturale che abbia come obiettivo la cooperazione politica a difesa di un’umanità che diviene di giorno in giorno sempre più fragile. Non credano i sovranisti (e chi scrive lo è da quando questa nozione era scomparsa dai dizionari della politica, tanto per essere chiari) che l’americanocentrismo trumpiano avrà effetti anche sull’Europa (non l’Unione, ma il continente) in continuità con l’atteggiamento dei suoi predecessori. “America first” vale “erga omnes”, insomma. Vorremmo che il principio fosse compreso anche dagli europei la cui attitudine storica è stata quasi sempre quella si stringere legami piuttosto che sciogliere traumaticamente nodi faticosamente allacciati.

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