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Cosa capisco (e cosa non capisco) della sentenza della Consulta sull’Italicum

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Dopo il Consultellum 1 (che aveva emendato il Porcellum) arriva il Consultellum 2 (che ha manipolato l’Italicum). Ambedue le leggi elettorali, benché azzoppate, sono in grado di camminare ovvero sono come si dice auto applicative, dal momento che non può esservi un vuoto legislativo in una materia fondamentale per vita ordinata ed ordinaria del Paese. Quando saranno rese note le motivazioni della sentenza del 25 gennaio comprenderemo meglio l’iter logico seguito dai giudici delle leggi. Fin da ora però appare chiaro che il collegio ha cercato di essere coerente con quanto aveva stabilito in precedenza nella decisione riguardante il Porcellum. La Corte non aveva il potere di riscrivere la legge e quindi di affermare quale avrebbe potuto essere un rapporto equo (e conforme alla Costituzione) tra il consenso popolare effettivo e il premio di maggioranza (ovvero tra esigenze di rappresentatività e di governabilità). Per questi motivi è stata costretta a cassare le norme sul ballottaggio (la procedura che avrebbe permesso di vincere le elezioni ed incassare il plenum dei 340 seggi anche se, nel primo turno, quella lista avesse ottenuto un numero limitato di suffragi popolari). Assegnare il premio alla lista che conquista il 40% dei voti nell’unica tornata elettorale è sembrato equo e conforme alla recente giurisprudenza.

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Per quanto riguarda i capilista non viene meno la possibilità che siano “bloccati” e candidati in più collegi, ma gli effetti di queste norme vengono temperati dal criterio del sorteggio, fino ad ora residuale. Non si capiscono a fondo i motivi di questa decisione, essendo prevista da sempre la libertà d’opzione.

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Si andrà al voto con due differenti leggi elettorali per Senato e Camera? È difficile immaginare che il Parlamento possa fare qualche cosa di meglio e di diverso. Certo, la maggioranza che sostiene il Governo del conte Gentiloni avrebbe i voti per varare una legge che renda più omogenei i sistemi. Ma ne avrebbe la forza e l’intenzione? Il presidente Mattarella ha già detto che questa sarebbe la soluzione preferibile, ma adesso la palla è arrivata tra i piedi del presidente del Consiglio. Tocca a lui resistere alle pressioni di Matteo Renzi che vuole andare al voto il più presto possibile. Ma l’ex caudillo, la cui parabola è discendente, oserebbe combinare a Gentiloni lo stesso scherzo che fece ad Enrico Letta?

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Detto fra noi, andare a votare con due sistemi differenti per Senato e Camera non sarebbe la fine del mondo. In fondo non sarebbe sbagliato rovesciare il rapporto che c’è stato nell’ultimo quarto di secolo tra la legge elettorale e la politica, nel senso che la prima è stata costretta ad adeguarsi alle esigenze della seconda (nella Prima repubblica avvenne il contrario). Voltare pagina, da noi, ed affermare che il sistema elettorale è quello che è e la politica si deve adeguare, sarebbe un notevole passo in avanti. In tutti i Paesi è così. In Spagna, per esempio, non hanno pensato di cambiare la legge elettorale in nome della c.d. governabilità; sono rimasti all’intero di quelle regole, nonostante le difficoltà nell’assicurare una stabilità. Così avviene negli Usa, in Germania, nel Regno Unito, in Francia, in Belgio e altrove.

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C’è un giudice a Londra. La Corte Suprema ha imposto definitivamente al Governo di Theresa May di chiedere un voto del Parlamento (Camera dei Comuni e dei Lord) sulla Brexit. Una classe dirigente con gli attributi dovrebbe avere il coraggio di assumersi la responsabilità di decidere per ciò che ritiene essere il bene del Paese, senza lasciarsi condizionare da un voto popolare neppure vincolante. Sono questi il senso e il significato di una democrazia rappresentativa, che, se non andiamo errati, è proprio made in England.

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Quando arriverà a Virginia Raggi l’accusa di abigeato?

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