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Il ruolo dell’Italia nell’esplorazione dello Spazio. Parla Barbara Negri dell’Asi

In questa seconda conversazione (qui la prima) al limite tra il reale e il futuribile, Formiche.net ha parlato con Barbara Negri, responsabile dell’unità di esplorazione e osservazione dell’universo dell’Agenzia spaziale italiana, dei progetti di esplorazione della Nasa, del riconoscimento internazionale del ruolo dell’Italia nel settore dell’esplorazione spaziale e dei limiti da superare per rendere l’evoluzione scientifica ancora più fluida ed efficiente. In gioco c’è non solo la possibilità di conoscere i dettagli dell’origine della vita, ma l’occasione di costruire un futuro interplanetario per l’uomo.

Nelle missioni di esplorazione spaziale della Nasa new frontier attualmente in selezione, quale può essere il contributo dell’Italia?

Abbiamo avuto una richiesta di collaborazione per tre delle cinque missioni new frontier in selezione, ma è ancora prematuro esprimersi su quelle che potranno essere le necessità. Una è Oceanus – la missione per la luna di Saturno Titano – in cui il Jet propulsion laboratory della Nasa ci ha chiesto un radar e uno strumento di radioscienza (gli stessi che sono a bordo della missioni per Giove, Juno statunitense e Juice europea); la relazione con JPL è periodica, per cui già sono in corso da due/tre mesi delle collaborazioni a riguardo. Recentemente – circa un mese fa – ci è arrivata la richiesta di partecipare come partner Nasa ad altre due missioni: MoonRise e Condor. La seconda è diretta alla stessa cometa di Rosetta (67P/Churyumov-Gerasimenko) dove però la Nasa vuole fare qualcosa di più. Si tratta di una missione di sample return in cui si intende prelevare un campione da riportare sulla Terra per analizzarlo. Probabilmente l’interesse verso l’Italia deriva dalla nostra profonda conoscenza di questa cometa, visti i numerosi dati ricevuti dopo due anni abbondanti di operatività di Rosetta. Conoscenza che l’America non possiede. Anche in questo caso, non so se ci verrà richiesto lo spettrometro che era a bordo di Rosetta, se ci chiederanno di partecipare con il trapano o con entrambi gli strumenti. Entro gennaio dovremmo metterci dietro un tavolo e capire cosa fare anche per queste due missioni.

Cosa pensa dei progetti di colonizzazione umana di ambienti extraterrestri?

Nel nostro sistema solare l’unico e solo candidato è Marte. Ci serve un pianeta roccioso, localizzato nella fascia di abitabilità (una zona di distanza dal sole in cui l’acqua può essere presente in forma liquida), in possesso di una gravità e con condizioni minime di sopravvivenza. Poi per respirare e mangiare possiamo attrezzarci. Ma su altri pianeti come Mercurio e Venere, per via delle temperature e delle nubi tossiche, non possiamo comunque andare. Per Marte il vero problema da affrontare è il lungo viaggio che dura minimo sette mesi (solo andata, ndr). Un periodo in cui, uscendo dalle fasce di Van Allen, l’astronauta è esposto a radiazioni. Poi c’è da considerare il periodo di permanenza sul pianeta, la cui superficie è completamente sterilizzata da radiazioni cosmiche, molto pericolose per l’uomo.

Quali potrebbero essere le soluzioni?

Per la permanenza su Marte il problema è inferiore. Si sta pensando di scavare al di sotto della superficie, a due metri (la distanza a cui arriverà la trivella di Exomars 2020), dove la radiazione non penetra, e costruire lì delle strutture da abitare. Ma la cosa più complessa è la radioprotezione durante il viaggio (minimo 14 mesi per andata e ritorno). Non si può fare una navicella schermata di piombo, ma bisogna immaginare una radioprotezione su schermi attivi, costruendo ad esempio un campo magnetico che blocca le radiazioni. Ho letto anche di progetti che, inoculando particolari preparati, prevedono la predisposizione del sistema dell’astronauta ad attuare contromisure per reagire alle radiazioni. Si tratta tuttavia di sistemi molto futuristici. Il problema dello schermaggio resta comunque il più critico. Per il resto, lo abbiamo visto, gli Usa hanno portato sei missioni con macchinette, riescono ad atterrare in sicurezza e a muoversi su Marte.

Anche per l’alimentazione stiamo facendo passi avanti, vero?

La stazione spaziale internazionale (ISS) ce lo sta dimostrando. E’ un ottimo sistema per provare serre e riciclo dell’acqua, ad esempio; basti pensare che sulla ISS viene riciclato addirittura il sudore. La tecnologia va avanti in maniera capillare, basta avere un obiettivo, e noi lo abbiamo. Quando il presidente Usa John F. Kennedy disse che entro la fine del decennio avrebbe mandato l’uomo sulla Luna, era totalmente impensabile riuscire a farlo. In otto anni (1969) l’impresa è stata compiuta. Le tecnologie hanno iniziato a correre. Con la presenza di un programma tutti convergono in un sistema che diventa sempre più efficiente.

In Italia abbiamo un programma che spinge il sistema-Paese verso una direzione unica di innovazione?

No, noi non ce l’abbiamo. Abbiamo tante attività che però non sono collegate tra di loro. Manca trasferimento tecnologico da un settore a un altro. Qualcuno lo fa attraverso i fondi europei, ma lo fa in piccolo. Purtroppo il nostro limite è questo. Ma è anche un limite europeo.

Da chi dovrebbe venire la spinta?

Bisognerebbe avere un sistema di raccordo. L’agenzia spaziale nel suo piccolo lo fa. Ma bisogna rendersi conto che ci sono tanti fondi europei che magari non sono etichettati come fondi per lo spazio ma sono fondi per l’innovazione tecnologica. Lì non sempre si ha conoscenza di cosa stanno facendo gli altri. Sicuramente servirebbe un’agenzia di trasferimento tecnologico che manca nel nostro Paese. In secondo luogo, probabilmente, servirebbe una politica di innovazione e tecnologia a largo campo. Ora un istituto scientifico non sa quello che fa l’altro, un’industria pensa solo alla competizione e non magari a mettersi insieme per raggiungere risultati più grandi. E’ essenzialmente un problema organizzativo. Esistono delle nicchie di conoscenza, di leadership e di capacità altissime ma non rispondono a un disegno di insieme.

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