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Ecco come la Ford slalomeggia fra Donald Trump e Barack Obama

La Ford non costruirà un nuovo stabilimento Messico per produrre la Focus: martedì l’azienda automobilistica americana ha annunciato ufficialmente di aver rinunciato al progetto di trasferimento dell’intera linea produttiva di uno dei suoi modelli più venduti in un nuovo impianto a San Louis Potosi (Messico centrale) e contemporaneamente ha comunicato l’intenzione di ampliare uno stabilimento già esistente in Michigan, a Flat Rock. I numeri: l’investimento messicano, già valutato da diverso tempo, doveva costare 1,6 miliardi di dollari e produrre 2800 posti di lavoro; quello nazionale avrà un budget di 700 milioni, con 700 posti di lavoro, che però saranno lavoratori americani.

Per il presidente eletto Donald Trump è un buon risultato. La guerra contro il trasferimento delle unità produttive di importanti aziende americane all’estero era iniziata durante la campagna elettorale, e aveva toccato proprio la Ford. Ai tempi il Ceo Mark Fields aveva annunciato che Trump o non Trump il progetto di creare un nuovo stabilimento in Messico era ormai in fase operativa, e la sua azienda non vi avrebbe rinunciato. Passati pochi mesi Fields s’è trovato costretto a spiegare che il passo indietro non è arrivato per allinearsi con le visioni del prossimo inquilino della Casa Bianca, ma ha detto in un’intervista a Poppy Harlow della CNN che è stata frutto di una revisione dei piani aziendali che ha coinciso con l’instaurarsi di una situazione economica più vantaggiosa in America, e allo stesso tempo di aver fiducia nelle riforme fiscali che aumenteranno ancora la competitività americana; dichiarazione d’alta diplomazia, che non abbandona il feeling con la precedente amministrazione, quella che ha prodotto una situazione “più vantaggiosa” appunto (e ha salvato le aziende automobilistiche dalla bancarotta) e si lega alle “riforme fiscali” della prossima amministrazione che permetteranno di migliorarla.

La Focus, secondo i piani, sarà comunque costruita interamente in Messico, ma nell’impianto già esistente di Hermosillo, mentre in Michigan saranno costruite auto elettriche, quelle su cui Barack Obama aveva investito policy di rimbalzo al macro-tema, molto caro, del cambiamento climatico (che Trump disconosce). Trump ne esce positivamente comunque, perché può usare la vicenda per avvicinarsi ancora di più al substrato elettorale che lo ha reso forte, i lavoratori delle classi inferiori, quelli che beneficeranno con maggiori aliquote di quei posti di lavoro: “Trump sta già producendo i posti di lavoro che ha promesso all’America, ha scritto il New York Post, uno dei media amici (“È una grande notizia. Grande per il nostro futuro qui, soprattutto per i nuovi assunti” ha commentato alla CNN un operaio di Flat Rock). Inoltre può battere su uno dei vari pallini sbandierati, i contratti di libero scambio ritenuti una iattura; nel caso specifico il trattato Nafta firmato da Bill Clinton per creare il mercato unico nordamericano – la posizione appare addirittura inasprita con la scelta del nuovo chief del team di negoziatori commerciali della Casa Bianca, Robert Lighthizer, considerato un avvocato protezionista dalla linea molto severa. Nelle stesse ore dell’annuncio di Ford, Trump aveva usato Twitter per indirizzare un messaggio alla General Motors, proprio nei giorni che anticipano l’importante salone internazionale di Detroit: per il presidente eletto il più grande gruppo automobilistico americano è colpevole di produrre un modello interamente in Messico e poi rivenderlo negli Stati Uniti senza pagare dazi doganali; la Ceo di GM, Mary Barra, è stata una delle sostenitrici di Hillary Clinton durante la campagna.

La questione interessa nemmeno troppo lateralmente anche l’Italia, in quanto la Fca produce in Messico, nello stabilimento di Toluca e da lì muove milioni di indotto che rientrano tutti sul mercato italiano.

 

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