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Assicurazioni Generali, Intesa Sanpaolo e le teorie di Repubblica

Contrordine lettori: la Cassa depositi e prestiti non è il male assoluto, ovvero il ritorno dello Stato padrone che fa sia il poliziotto che fornaio (e che sforna panettoni come quelli dell’ex Alemagna statale) e magari l’assicuratore non sarebbe una catastrofe. La Cdp può invece essere un baluardo per difendere e anzi per realizzare quei campioni nazionali che possano reggere alla concorrenza di altri campioni esteri.

Il contrordine è sottotraccia, per nulla strombazzato ed enfatizzato. Eppure è presente, proprio in uno dei media in cui di solito si esercitano gli intellettuali più liberisti (da Alberto Bisin ad Alessandro De Nicola, per fare i nomi di due economisti di peso), ossia l’inserto di Repubblica, Affari & Finanza (dove compariva peraltro proprio un commento di De Nicola contro l’ipertrofia normativa di Bruxelles).

Ebbene sì, se da un lato il quotidiano diretto da Mario Calabresi ha assunto posizioni non rigide con le sue principali firme di economia e finanza sul progetto di Intesa Sanpaolo per un consolidamento industriale con Assicurazioni Generali (Massimo Giannini non contrario all’operazione in fieri, Francesco Manacorda più scettico, anzi critico), ieri sul dorso di economia del lunedì del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari s’invoca a sorpresa la discesa in campo della Cassa depositi e prestiti (controllata con l’80% dal ministero dell’Economia) per difendere l’italianità delle Assicurazioni Generali.

Ecco il ragionamento/auspicio contenuto nell’analisi di Marco Panara, che non ha lesinato perplessità e rilievi sul piano allo studio della banca guidata dall’amministratore delegato Carlo Messina sulla compagnia assicurativa di Trieste: “ Se si ritiene che l’italianità sia un valore, e per il Paese lo è, allora si prenda il coraggio a due mani e si faccia lo scelta più diretta: Cdp, che è dello Stato, diventi azionista di Generali conferendole la Sace (Euler Hermes, la Sace tedesca, è di Allianz) e il governo ci metta sopra anche una bella Golden share. Generali varrebbe sul mercato per la sua redditività e non per la sua contendibilità e staremmo tutti più tranquilli”.

Saranno tranquilli anche gli altri editorialisti di Repubblica con lo Stato assicuratore?

L’articolo di Massimo Giannini 26 gennaio 2017 pubblicato su Repubblica.it

L’ultima battaglia che si sta consumando intorno a quel che resta del povero, provinciale capitalismo italiano fa venire in mente Schiuma della Terra di Arthur Koestler. Passeri cinguettano sul filo del telegrafo, mentre il telegrafo trasmette l’ordine di sterminare tutti i passeri. Cos’altro sono i colpi incrociati tra Banca Intesa e Mediobanca, che si contendono le Generali? Nulla è ancora chiaro, nelle mosse dei contendenti. Non si capisce ancora se si profila una “guerra mondiale” in cui c’è in gioco la difesa della mitica “italianità” (minacciata dai giganti d’Oltralpe Axa e Allianz) o più banalmente si combatte una “guerricciola di potere” casareccia (la banca di Carlo Messina che vuole estorcere l’eredità a quella di Alberto Nagel).

Certo, vista con gli occhialini sfocati della piccola Italia la posta in palio sembra enorme: il Leone Alato resta pur sempre la “magnifica preda” che Enrico Cuccia ha difeso per anni con le unghie e con i denti. Il primo gruppo assicurativo tricolore, con una raccolta premi da 25,5 miliardi e un attivo di 496. Sforna 2 miliardi di utile, e stacca ai soci un dividendo di 72 centesimi per azione.

Ma con uno sguardo retrospettivo sul passato, e con gli occhi rivolti al mercato globale, le forze in campo diventano una somma di debolezze. E quando c’è troppa debolezza, non ti puoi meravigliare se arriva il più forte, fa strage di passeri e si porta via il bottino. Che ostenti il tricolore, come Intesa, o che batta un’altra bandiera, come Allianz o Axa. Fa lo stesso. È la lezione di Schumpeter, che valeva ieri e vale anche oggi. Generali e Mediobanca sono il Salotto Buono che esiste ormai solo nel “giornalese”, e non più nel Paese. Il Leone Alato è tuttora “strategico” per noi, anche solo per il fatto che si porta in pancia qualcosa come 60 miliardi di titoli del debito pubblico italiano. Ma in vent’anni ha perso tutti i suoi primati, che nascevano dall’internazionalizzazione. Il volume dei premi (scivolati al terzo posto in Europa). Il valore di Borsa (crollato da 42,5 a 24 miliardi in 10 anni). Il livello degli attivi (scesi alla metà di quelli della francese Axa e della tedesca Allianz, rispettivamente 887 e 833 miliardi).

Da anni, ormai, Generali ha smesso di crescere, e si è arroccata nell’asfittica e ormai quasi patetica Fortezza Italia. Il mondo è cambiato, dai tempi di Randone e Coppola di Canzano, di Gutty o dello stesso Bernheim. La compagnia non ha tenuto il passo dei cambiamenti. Ha rinunciato a sviluppare il business, per concentrarsi sulla rendita. In Italia ha comprato tutto il comprabile (Ina, Alleanza, Toro), mentre all’estero ha ceduto pezzi anche pregiati. Si è svenata in operazioni “di sistema” spesso fallimentari (da Alitalia a Telecom, da Ntv a Mps) e si è rifiutata di intervenire in quelle davvero convenienti (come l’affare Pioneer, colosso del risparmio gestito colpevolmente lasciata ai francesi di Amundi).

Oggi Generali è sottocapitalizzata: il patrimonio netto più le riserve ammontano ad appena 25 miliardi, il coefficiente di solidità Solvency Ratio II è fermo al 171% (contro il 205 di Axa e il 200 di Allianz). Ma anche questa fragilità, per paradosso, è frutto di una scelta. Generali è stata l’architrave dei Poteri Forti, in un groviglio azionario in cui, nel vecchio gioco delle scatole cinesi, si incrociava tutto, grandi griffe e grandi famiglie: da Mediobanca a Unicredit, dagli Agnelli ai Pirelli. L’obbiettivo era blindare il sistema, e rendere le partecipate non contendibili. Quindi niente aumenti di capitale, che avrebbero diluito le quote degli azionisti, e in compenso laute cedole.

Così è stato, da anni. E così continua ad essere, se è vero che l’ultimo ceo di Generali Philippe Donnet ha brindato “ai più alti dividendi della storia” (5 miliardi, in valori aggregati). Peccato che per garantirli ha avviato una bella campagna di dismissioni, provando a cedere le attività di Generali in Francia e in Germania (che da sole valgono 27 miliardi di premi). Detta brutalmente: sottrai risorse al business, per distribuirle ai soci. Tutto legittimo, per carità. Ma poi non puoi sorprenderti se arriva uno più grosso di te e ti vuole mandare a casa.

Di chi è la colpa? Dei manager degli ultimi anni? In parte, certo. Ma non si può non vedere che la responsabilità principale, oggi, ricade proprio sugli azionisti delle Generali, che non hanno mai smesso di mungere il Leone. E se oggi rischiano di cadere i bastioni di Trieste, cadono insieme anche quelli già debolissimi di Piazzetta Cuccia. È stata ed è Mediobanca, con il suo 13%, che ha imposto la sua camicia di forza su Generali. È Mediobanca che ha impedito a Generali di nuotare in mare aperto, con la scusa dell’eterna protezione. Per una volta, viene da dare ragione a Cesare Geronzi, transitato sulle poltrone di entrambi i salotti, e a sua volta quasi mai animato solo dal “sacro fuoco” della sana competizione finanziaria: Generali è una compagnia “eterodiretta” da un azionista che oltre tutto non è più “il perno del sistema”.

Da che pulpito, si potrebbe dire. Ma questa è la verità. Le Generali hanno gli stessi vizi antichi di Mediobanca. E la presa di Mediobanca sul capitalismo italiano, ormai, non esiste più. Parlano i fatti: da Comit a Italcementi, fino ad arrivare a Rcs. Le schermaglie finanziarie alle quali stiamo assistendo sono solo il preludio alla caduta degli dei. È tutto un sistema che viene giù, dietro alla battaglia sulle Generali. E alla fine è un bene che succeda. Si tratterà di capire come intende procedere Intesa (scalata in Borsa, Ops, chissà). Si tratterà di verificare se farà da “taxi” per qualche scorribanda dall’estero (Axa o Allianz, appunto), o se invece gioca in proprio (ipotesi assai gradita al governo Gentiloni, che non parla ma non nasconde il suo sostegno all’offensiva di Messina).

Piazzetta Cuccia ormai non decide più i destini dell’economia italiana. E dunque anche l’arrocco difensivo che ha deciso per Generali (l’acquisto del 3% del capitale di Ca de Sass, oltre tutto preso a prestito con i soldi degli assicurati) rischia di essere un’arma spuntata. Il cinguettio di un passero, sul filo di un telegrafo. Ma forse l’ordine, su quel filo, è già passato.

 

L’articolo di Francesco Manacorda pubblicato su Repubblica il 4 febbraio 2017

Ma cosa sarà mai un case study? Dopo due settimane di Borsa elettrizzata dal maggior gruppo bancario del Paese, Intesa-Sanpaolo, e dal campione nazionale delle assicurazioni, Generali, ecco che la banca guidata da Carlo Messina fa sapere che «possibili combinazioni industriali» con Trieste «sono tuttora soltanto oggetto di un case study». Il Cambridge Dictionary recita che un
case study è «un resoconto dettagliato che dà informazioni riguardo allo sviluppo di una persona, un gruppo o una cosa, specie per dimostrare princìpi generali».

Si può ragionevolmente pensare che dei princìpi generali a Messina importi poco o nulla e che sia invece molto interessato a capire nel dettaglio se e quale combinazione con Trieste possa funzionare. Ma allora farebbe bene a muoversi in fretta, evitando che una commedia degli equivoci si trasformi in una commedia tout court.

Da quando due settimane fa un articolo de La Stampa ha svelato l’operazione allo studio, dalle parti di Intesa sono arrivati all’inizio lunghi «no comment », poi una prima dichiarazione dopo che le Generali – esasperate dal silenzio del presunto offerente – si erano mosse per comprare il 3% della banca; di seguito qualche sortita ufficiosa che sembrava rafforzare l’idea di un’offerta in arrivo – ad esempio rassicurando i preoccupati agenti della compagnia – infine una secca smentita a un’Ops (cioè un’offerta pagata con azioni della stessa Intesa) su Trieste.

Nel frattempo gli azionisti delle Generali – beati loro – hanno visto salire il titolo dai 14,25 euro del 23 gennaio ai 14,98 euro di ieri, un rialzo di oltre il 5%. Quelli di Intesa-Sanpaolo sono passati da una quotazione di 2,39 euro a una di 2,23 euro – un calo di poco meno del 7% – nelle stesse due settimane. In nome di un case study? È questa la risposta che i vertici della banca dovrebbero dare ai loro soci. E che la Consob potrebbe chiedere con più vigore di quanto ha fatto finora.

La verità è che – ammesso che combinare il maggior gruppo bancario concentrato in Italia con il maggior gruppo assicurativo che opera in Italia abbia senso dal punto di vista industriale – molto dipenderebbe anche dal prezzo a cui un’operazione di questo genere venisse fatta.

Facile capire che se le Generali salgono e i titoli Intesa scendono per la banca diventa più caro – e meno attraente per i suoi azionisti, che in una combinazione si dovrebbero inevitabilmente diluire – fare qualsiasi mossa sulla compagnia assicurativa. Ma in queste due settimane le Generali sono salite proprio perché si parlava di un’offerta di Intesa, che a sua volta è scesa per lo stesso motivo.

Che cosa può fare adesso Intesa-Sanpaolo, mentre il mercato brancola nel buio? La strada dell’Offerta di scambio, pubblicamente smentita, è al momento chiusa a meno che la banca non dimostri anche alla Consob che alcune condizioni sono radicalmente cambiate; quella di una salita progressiva nel capitale di Trieste è bloccata dalla mossa preventiva che le stesse Generali hanno fatto prendendo il 3% di Intesa.

In teoria Messina potrebbe agire con un’Offerta di acquisto o un’Offerta di acquisto e scambio (soldi più titoli), ma entrambe le soluzioni potrebbero essere troppo onerose. Difficile scommettere anche su una mediazione sull’asse Milano-Trieste, ad esempio con un’alleanza nel risparmio gestito. Sia il Leone sia il suo principale azionista Mediobanca, non paiono in questa fase ansiosi di invitare in salotto chi si è presentato senza invito e mettendo un piede nella porta. Del resto anche Trieste ha i suoi affanni.

Mentre in queste settimane i vertici della compagnia e Mediobanca si sono affrettati a far sapere che la miglior soluzione possibile era quella di non toccare gli equilibri esistenti e che anzi la mossa di Messina, pasticciata, avrebbe aperto il vaso di Pandora degli interessi stranieri, il rialzo del titolo racconta anche un’altra storia. I soci del Leone che non hanno posti in consiglio, ma «votano con i piedi», ossia comprando o vendendo le azioni, hanno molte ragioni per essere insoddisfatti della performance degli ultimi anni e probabilmente non disdegnerebbero un cambiamento.

Al mercato serve chiarezza sulle Generali e sulla strategia di Intesa-Sanpaolo, mentre in questo momento avviene il contrario. Gli azionisti sono al buio e la banca deve passare indenne tra Scilla e Cariddi, tra un’Offerta pubblica sul Leone che pare difficilmente praticabile e una ritirata che suonerebbe piuttosto ingloriosa per i propositi di grandeur espressi. C’è già chi lo chiama lo Stretto di Messina.

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