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Ecco i consigli (non alla Davigo) di Sergio Mattarella ai giovani magistrati

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Al netto dell’attenzione sequestrata in questa settimana dal festival di Sanremo, che il sempre imperdibile Mattia Feltri ha definito sulla Stampa un “alibi”, più che un concorso canoro, in una edizione peraltro bipartisan, a conduzione non solo uomo/donna ma anche Rai/Mediaset per le appartenenze aziendali del conduttore e della conduttrice, quasi per abituarci all’idea delle larghe intese o della grande coalizione cui sembriamo destinati dopo le elezioni col vecchio sistema proporzionale; al netto, dicevo, di Sanremo e di tutto ciò che ne deriverà, chissà se gli italiani si saranno accorti del ritorno alla grande di mister Spread. Che indica il cosiddetto differenziale fra i costi del debito pubblico tedesco e italiano, detto così all’ingrosso, e che è tornato a quota 200. Come lo trovò Matteo Renzi arrivando tre anni  fa a Palazzo Chigi, per cui il solito Fatto Quotidiano, ossessionato forse dalla paura che il segretario del Pd possa tornarvi dopo essersene allontanato per la sconfitta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, ha colto il segno della volontà dei “mercati” di “rimuoverne” persino l’ombra, tanto funesto evidentemente deve ritenersi il personaggio.

Di certo 200 chili, diciamo così, sono tanti. E chissà di quanto potrà continuare a salire il peso di mister Spread da qui alle elezioni, con l’inevitabile instabilità percepita all’interno e all’estero di fronte alla campagna elettorale in corso dal 4 dicembre come prosecuzione di quella referendaria. E’ una campagna elettorale che solo gli ingenui e i furbi, in diabolica combinazione, si rifiutano di considerare e chiamare col suo nome, fermi all’idea un po’ ipocrita che l’inizio di una campagna elettorale sia quello del decreto d’indizione formale dei comizi, o del deposito delle liste e di altri adempimenti del genere.

Duecento chili sono meno della metà dei 500 che nel 2011 diedero il colpo di grazia all’ultimo governo di Silvio Berlusconi e aprirono le porte di Palazzo Chigi al “sobrio” Mario Monti. Al quale, strada facendo, venne la voglia di sistemare non solo i conti economici del Paese, ammesso che lo avesse davvero fatto, ma anche quelli politici, allestendo un movimento e relative liste per le elezioni del 2013, orgogliosamente servite, secondo le stesse dichiarazioni di Monti all’indomani dei risultati elettorali, ad evitare la vittoria dell’allora Cavaliere. E persino a scongiurarne l’ascesa al Quirinale.

Ma non è detto che i 300 chili mancanti ai 500 ereditati da Monti sei anni fa possano essere colmati nei prossimi mesi, mentre gli onorevoli partiti e movimenti continueranno a guadagnare tempo, o a perderne, secondo i gusti, discettando e trattando in Parlamento, o dietro le quinte, della “omogeneizzazione” o “armonizzazione”, come ha raccomandato l’illustrissimo presidente della Repubblica, delle due leggi oggi in vigore per il rinnovo della Camera e del Senato: entrambe uscite non dalla sartoria parlamentare ma da quella della Consulta. Dove lavorano con la calma imposta dalla loro età e dall’altezza delle loro funzioni, per carità, i giudici della Corte Costituzionale. Dai quali, almeno mentre scrivo, si attende ancora il deposito della sentenza contenente le motivazioni della decisione presa e annunciata il 25 gennaio scorso, cioè 13 giorni fa, contro il ballottaggio ed altre cosette della legge elettorale della Camera nota come Italicum.

Di queste motivazioni sono curiosi, o fingono di esserlo, i signori legislatori per regolarsi meglio nel tentativo di raccordare le due leggi, e magari farne venire fuori una sola, nella speranza che, una volta applicata, non finisca anch’essa per arrivare, o tornare, alla Consulta con i riti e le procedure con cui vi approdarono a suo tempo le altre.

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In attesa di vedere se e in che misura il Parlamento vorrà o potrà accogliere i suoi già ricordati richiami alla omogeneizzazione e armonizzazione delle norme elettorali in vigore, che pure la Corte Costituzionale ritiene applicabili come sono, essendole giustamente preclusa la possibilità di condannare il Paese alla ineleggibilità delle Camere, il capo dello Stato continua naturalmente la sua attività.

Pertanto Sergio Mattarella ha ricevuto al Quirinale i giovani magistrati in tirocinio ai quali ha dato consigli lodevolissimi, forte anche della sua esperienza giurisdizionale vissuta alla Consulta prima di essere trasferito dal Parlamento al palazzo di fronte.

In particolare, il presidente della Repubblica ha richiamato le nuove leve della magistratura non solo al diritto all’indipendenza e all’autonomia sancite dalla Costituzione, ma anche al dovere “dell’equilibrio, ragionevolezza, misura, riserbo”. E alla necessità di avere sempre chiaro “il senso dei propri limiti, particolarmente di quelli istituzionali”, rispettando i quali eviteranno, fra l’altro, “sovraesposizioni” e applicazioni troppo “creative” della legge, dannose quanto quelle “meccanicistiche”.  Un altro aiuto potrà venire ai magistrati dalla rinuncia ad avere solo certezze, e non anche “dubbi”, che in effetti sono il sale dell’intelligenza, anche se Mattarella non ha usato queste parole.

Almeno nell’elenco degli invitati e delle “autorità” presenti alla cerimonia, ormai entrata nelle abitudini del Quirinale, non ho trovato nomi di rappresentanti, diciamo così, sindacali delle toghe. Che non vorrei si sentissero per questo esonerati dall’obbligo o dalla sensibilità, come preferite, di attenersi ai consigli e alle indicazioni del presidente della Repubblica, che peraltro è per dettato costituzionale anche il presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Lo scrivo, e lo dico, perché ogni tanto si sentono da quelle parti cose che fanno mettere le mani fra i capelli, come la presunzione d’innocenza interpretata come presunzione di colpevolezza quando si arriva a liquidare gli assolti o non indagati a chi l’ha fatta franca, o quasi.

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Due parole, infine, sugli effetti nel dibattito politico italiano dell’Europa “a due velocità” appena proposta dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Trovo personalmente curioso il sostanziale coro di consensi levatosi da esponenti di partito e di governo senza che nessuno, o quasi, si sia posto il problema di sapere o solo di prevedere se all’Italia potrà o dovrà toccare il gruppo di testa o di coda di un’Europa a trazione sostanzialmente germanica.

Ma chi sono io per giudicare o valutare una cosa del genere? Direbbe forse Papa Francesco.

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