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Cosa condivido (e cosa non condivido) del programma di Marine Le Pen

Marine Le Pen

Le presidenziali francesi si avvicinano rapidamente. Lo scacchiere dei candidati è estremamente articolato. Di certo, la figura più interessante, e che parte anche avvantaggiata nei sondaggi, almeno per il primo turno, è la leader del Front National Marine le Pen. Pochi giorni fa lei stessa ha presentato e pubblicato on line il suo programma nel sito del partito con al fondo una visibile rosa blu, espressione del riferimento esplicito ad un socialismo non operaistico e classista ma nazionale e patriottico. I 144 punti riprendono in chiave ovviamente presidenziale la cornice valoriale da tempo leggibile sul portale, determinandone i valori e codificandone gli obiettivi concreti da realizzare.

Devo dire subito che al suo interno sono enunciati alcuni principi giusti, altri condivisibili e altri ancora inaccettabili. Il titolo della prima parte rappresenta il riferimento globale più stimolante e maggiormente rappresentativo della novità complessiva della destra internazionale contemporanea, collegando il progetto politico francese sia a Donald Trump e sia Vladimir Putin: rimettere la Francia in ordine, restituirgli la sua sovranità in un’Europa di nazioni indipendenti, al servizio dei popoli.

Posto che questa premessa appare anche a me, in linea di principio, valida, certamente è degno di nota il voler mettere in rilievo l’interesse nazionale come fine primario della politica. È vero, d’altronde, che quest’ultima non è un’idea né di destra e né di sinistra, essendo l’obiettivo di partenza imprescindibile per ogni politica sana di governo. Chi si candida a fare il presidente di uno Stato deve in primo luogo pensare di incarnare il bene del suo popolo e la sicurezza dei suoi cittadini, a prescindere da ogni successiva determinazione e declinazione particolare. Condivisibile è inoltre l’attenzione sociale ed educativa alla formazione culturale e scolastica, nonché l’iniziativa a favore della demografia (che per altro la Francia porta avanti da anni) e della sicurezza. Oggi si deve tornare, infatti, ad affermare il primato dello Stato, in materia di lotta alla criminalità, nel garantire e tutelare ordine, legalità, sanità e formazione pubblica.

Una Francia sicura naturalmente, ma anche una politica economica protezionista e indirizzata a privilegiare l’economia reale: quindi anche il lavoro e il salario dei cittadini francesi. Molto interessante è, in aggiunta, la sezione dedicata alla riforma della giustizia, che deve essere più snella e più efficiente. Questa prima parte, vale la pena ripeterlo e chiarirlo, è giusta e condivisibile per chiunque abbia una concezione conservatrice della politica, che voglia vedere riaffermato il carattere indipendente dello Stato, immune da interessi di parte e libero da pressioni e vincoli esterni di tipo internazionale.

Inaccettabile è, per contro, il riferimento che nei punti finali del programma viene fatto ad una politica di potenza e ad una sintomatica concezione espansionista, e perciò implicitamente conflittuale, della Francia con gli altri Stati, una suggestione ben calibrata che resta unita al rifiuto perentorio e categorico di Europa e Nato.

Si fa eco qui ad una delle idee che sono al centro dell’agenda del FN, vale a dire l’opzione per lo Stato forte, definito come anti comunitario, cioè in grado di ridimensionare l’auto ghettizzazione multiculturale dei gruppi in seno alla nazione. Inoltre, nel progetto, Le Pen si richiama una idea di grandeur che va nella direzione di esprimere una volontà di egemonia e di potenza del proprio Paese nel mondo. Non a caso un capitolo intero è titolato: “La Francia potente, che crea e regna”.

Emerge in questi ultimi argomenti, a ben vedere, una specie di ideologizzazione particolaristica estrema della Francia che mal si addice ad una corretta e sana interpretazione del patriottismo. Ogni nazione, infatti, è una comunità autosufficiente che fa benissimo ad occuparsi politicamente, in primo luogo, di se stessa, ma questa esigenza non ha nulla a che vedere con la forma aggressiva che può assumere il nazionalismo, la quale, obbiettivamente, è il modo più semplice e migliore di mettere a repentaglio la sicurezza del proprio Stato. Si denota cioè un’opzione verso la determinazione rivoluzionaria della sovranità, piuttosto che per quella giusta idea di limite che orienta invece la cultura e l’etica conservatrice a vedere nello Stato un organismo indipendente, fermo e immune da poteri sociali. Un conservatore, in fin dei conti, può reputare giusti e condivisibili i primi punti del programma Le Pen, ma dovrebbe giudicare viceversa totalmente inaccettabili gli ultimi, se volesse essere coerente con se stesso.

Vale la pena, per capire questa demarcazione, meditare su una riflessione che Benedetto XVI ha scritto in proposito: “È significativo che i nazionalisti abbiano negato lo Stato quanto i marxisti, pretendendo di affermare qualcosa di più elevato della legge, vale a dire la volontà popolare”. Perciò la giusta e motivata restrizione della politica alla dimensione generale dello Stato, e l’altrettanto condivisibile attenzione per i cittadini e le loro esigenze reali ed economiche, si collega nella Le Pen ad una reminiscenza in salsa esplosiva dell’espansionismo nazionalista, non conseguente alle premesse e particolarmente inquietante, trattandosi di un Paese dotato di armamenti nucleari.

In generale è da preferire sempre al nazionalismo integrale non solo la difesa pacata e ordinata della pace sociale dentro le frontiere, ma anche la volontà di restare nei confini stessi della democrazia, fondando lo Stato sulla verità del diritto piuttosto che su obiettivi che ne trascendono la corretta funzione.

Una nazione è salvaguardata, in definitiva, molto più dai limiti che la politica sa darsi e imporre a se stessa piuttosto che non da insane vocazioni totalitarie e spauracchi ideologici radicali, il cui esito non può essere mai positivo ed è sempre pericoloso per tutti.

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