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25 anni di Mani Pulite: nozze d’argento o nozze con i fichi secchi?

mani pulite, legge elettorale

Sempre al netto degli ascolti, in senso lato, del festival canoro di Sanremo, che precede di gran lunga nell’interesse popolare la sorte della legislatura, di Matteo Renzi, di Virginia Raggi e quant’altro, sento l’obbligo di segnalarvi la sobrietà con la quale il senatore a vita ed ex presidente del Consiglio Mario Monti, ospite di Lilli Gruber a La7, ha salutato il ritorno di mister Spread. Che è lo stesso “signore” dal quale egli fu spinto sei anni fa a Palazzo Chigi per salvare l’Italia – si disse e ha ripetuto la graziosa conduttrice televisiva – dalla “bancarotta”.

Monti ha spiegato che questa volta mister Spread è per il governo italiano di turno meno pericoloso del 2011 sia perché è invecchiato di sei anni, sia perché pesa meno della metà, se l’intero è 500 chili, e ancora meno se l’intero è di 600, come ha sostenuto Lilli, ma soprattutto perché questa volta indossa un abito non italiano ma europeo, come il suo nome. Stavolta, cioè, a guadagnare punti, cioè peso, rispetto ai costi dei buoni del Tesoro tedeschi sono anche i titoli di altri paesi dell’Unione, a cominciare dalla Francia.

Possono quindi stare tutti tranquilli a Palazzo Chigi e dintorni. Il senatore a vita Mario Monti rimarrà al suo posto, a godersi il laticlavio guadagnatosi nel 2011, quando l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano prima di affidargli la guida del governo lo nominò generosamente senatore a vita. Laticlavio che non ha corso rischi neppure con la riforma costituzionale targata Renzi perché, anche se non fosse stata bocciata dagli elettori a larghissima maggioranza il 4 dicembre scorso, lui a Palazzo Madama sarebbe rimasto lo stesso, remunerato diversamente dagli altri 100, fra senatori provenienti dai Consigli regionali e sindaci, sprovvisti di indennità parlamentare. Ma non delle immunità, o di quel che ne resta dopo la dieta imposta dall’epidemia mediatica di Mani Pulite, come si chiamarono 25 anni fa le inchieste giudiziarie sul finanziamento illegale della politica e sulla corruzione che, secondo gli inquirenti, l’accompagnava sistematicamente, o quasi.

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Proprio i 25 anni di Mani Pulite, con dieci giorni di anticipo rispetto a quel fatidico 17 febbraio 1992, quando fu arrestato in flagranza di mazzette Mario Chiesa, il presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, sono stati celebrati nell’aula magna del Tribunale di Milano come peggio non poteva andare, a sentire e a leggere le cronache.

L’ex magistrato Antonio Di Pietro, diventato simbolo di quelle inchieste, poi ministro e parlamentare, e il suo ex collega Pier Camillo Davigo, rimasto felicemente in carriera giudiziaria e oggi presidente dell’Associazione Nazionale della categoria, hanno avuto la spiacevole sorpresa di trovarsi di fronte più fotografi che pubblico, o quasi.

Qualcuno, dalle parti delle toghe, ha attribuito la responsabilità di questo flop celebrativo ad una specie di boicottaggio degli avvocati. Che probabilmente, pur avendo guadagnato abbastanza da quell’epidemia, con quei quasi 5000 indagati e imputati da assistere, non ne debbono serbare un ricordo esaltante. Alcuni dei loro clienti ebbero peraltro la sventura di perdere la vita, e persino di uccidersi dando l’occasione a qualche magistrato, che non gratifico di nessun aggettivo perché non ho i soldi da spendere per un legale o per un risarcimento danni, di indicare in quel drammatico gesto la prova della colpevolezza.

Come si faccia, con questi precedenti, per non parlare d’altro, ad attendersi una grande partecipazione alla celebrazione delle nozze d’argento di quelle inchieste con il popolo in nome del quale si amministra la giustizia, Dio solo sa.

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Mi chiedo come sia possibile che ai protagonisti di quelle vicende giudiziarie non sia mai venuto in mente il dubbio che qualcosa non fosse stata gestita correttamente, salvo il riconoscimento tardivo dell’allora capo della Procura milanese della Repubblica, Francesco Saverio Borrelli, che non fosse valsa la pena scuotere tanto il Paese, e non solo gli indagati e imputati, visto che la corruzione era destinata a continuare, se non addirittura ad aumentare.

Eppure proprio “l’esercizio dell’arte del dubbio” è stato appena raccomandato nel Palazzo del Quirinale dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella ai giovani magistrati in tirocinio, esortati anche a non perdere mai “il senso del limite” e a tante altre cose di cui vi ho già riferito ieri.

Ah, ne avessero avuti di dubbi in tempo gli inquirenti della Procura di Roma per risparmiarsi lo smacco di chiedere loro stessi l’archiviazione, appena concessa dalla competente giudice delle indagini preliminari, di ben 113 imputazioni di mafia – articolo 416 bis del codice penale – in quell’intreccio di indagini e processi che porta il nome di “Mafia Capitale”.

Ma che razza di piovra è quella che si è rivelata così priva di tentacoli? Dovrebbero chiederselo anche i grillini, che hanno cavalcato più di tutti questa vicenda giudiziaria conquistando quasi a furor di popolo il Campidoglio con una sindaca purtroppo finita anch’essa alle prese con problemi di giustizia. Ad esorcizzare i quali non possono certamente servire le liste grilline di proscrizione dei giornalisti che se ne occupano.

Al netto del garantismo cui la sindaca capitolina ha naturalmente diritto, i guai le vengono non dai giornali ma dai fatti. Che sono peraltro il plurale del Fatto Quotidiano, anch’esso critico del trattamento mediatico riservato alla sindaca ma partecipe allo spettacolo, per esempio con questa “cattiveria” di giornata, rubrichetta di prima pagina: “Grillo elenca i 43 successi di Virginia Raggi. Ora ne è a conoscenza pure lei”, la povera inconsapevole.

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