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Cosa penso del libro su Thomas Hodgskin firmato da Alberto Mingardi

Daniele Capezzone e Alberto Mingardi

Alberto Mingardi, il direttore dell’Istituto Bruno Leoni, non è solo un colto e sofisticato analista liberale, e insieme un appassionato promotore di studi e iniziative pro-mercato di altissimo profilo. Tra i suoi meriti, c’è anche quello di recuperare – tra i “sepolti vivi” del liberalismo mondiale – figure magari meno conosciute, o comprensibilmente ritenute “laterali” rispetto ai più noti mostri sacri, eppure cariche di significato e di messaggi anche per l’oggi.

In qualche misura, e spero di non travisare le sue intenzioni o il suo approccio, mi pare che Mingardi applichi alla cultura liberale una annotazione che lui stesso ha compiuto, alcuni mesi fa, recensendo per la testata inglese Cap X un bel romanzo di Vargas Llosa, “The discreet hero”. Vale per i romanzi e anche per la vita reale, sembra dirci Mingardi: spesso siamo portati a concentrarci solo sui “grandi eroi”, ma c’è una profonda dimensione morale anche a un livello meno “epico”. In un romanzo o nella vita di ciascuno di noi, può esserci molta forza e molta dignità anche in una quotidiana routine di lavoro. Allo stesso modo, nel liberalismo, non è sufficiente limitarsi al “Pantheon” dei più grandi: anche in personaggi che per vari motivi (magari per un capriccio del caso, della sorte, del destino) non sono divenuti immortali, possiamo trovare una grande lezione e una profonda ispirazione.

È il caso di Thomas Hodgskin, avventurosa figura inglese della prima metà dell’Ottocento. A lungo (e sin da giovanissimo) in Marina, coinvolto in battaglie durissime, poi autodidatta, giornalista e cronista parlamentare, per un periodo collaboratore di Bentham, fino a divenire una firma dell’Economist. Per un paradosso della storia, e per una leggenda variamente alimentata, è stato a volte descritto come socialista, anticapitalista, addirittura “citato positivamente” da Karl Marx. In realtà Mingardi, che sulle orme di Rothbard dedica a Hodgskin un’analisi tutt’altro che convenzionale, ce ne restituisce un profilo assai diverso e più complesso nel volume “Thomas Hodgskin, discepolo anarchico di Adam Smith” edito da Marsilio 2016. Un ritratto– scrive Mingardi – di un “liberale eccentrico”, di un discepolo anarchico di Adam Smith, in omaggio all’esistenza di diverse “nuance” e sfumature del liberalismo.

In lui c’è indubbiamente una forte dimensione che oggi definiremmo “sociale”: non a caso contribuisce a fondare il Mechanics’ Institute, con l’obiettivo di un vasto programma di educazione a favore delle classi operaie. Nello stesso tempo, c’è in lui una fortissima ammirazione nei confronti della Rivoluzione industriale, un approccio “ultralavorista”, e la comprensione preveggente (Mingardi non a caso evoca una sorta di anticipazione della teoria del “capitale umano”) del fatto che la produzione debba contare e in qualche misura perfino fondarsi sul contributo di conoscenza/competenza/esperienza di chi lavora.

Ma l’aspetto che rende Hodgskin affascinante è quello che mirabilmente Mingardi pone al centro del suo ritratto: un incontro originalissimo e fecondo tra la sua dimensione “radicale” (la propensione alla trasformazione delle cose, al loro cambiamento profondo) e un esito per tanti versi “conservatore”. E dov’è il punto d’incontro? Nell’ostilità all’intervento ossessivo e incessante del legislatore, anzi nell’ostilità all’intervento del legislatore tout-court. Nel credere alla bontà del “non fare” da parte del legislatore, rispetto ai rischi del suo attivismo. Nel rifiutare l’idea stessa di “riforma”. Nell’essere nemico della legiferazione in sé. Nel credere all’economia moderna ma non allo Stato moderno. Nel ritenere impossibile – cito Mingardi – “un potere depurato della sua natura predatoria”.

Troviamo qui un punto su cui da tempo Mingardi – a mio avviso assai lucidamente – insiste anche al di là di questo volume. E che è maledettamente vero per l’oggi, per il nostro Occidente, dimenticando per un momento Hodgskin: l’unico modo per arginare gli shock, gli scossoni, le continue tensioni e le conseguenti fragilità legate alla politica/al governo/allo Stato/alla legislazione (o da essi indotte) è ridurne il perimetro, è limitare la portata della sfera d’azione pubblica, con la conseguenza anche di sdrammatizzare la contesa politica, a cui – auspicabilmente – occorrerebbe affidare e demandare molto meno.

Tornando invece a Hodgskin, c’è un ultimo aspetto che Mingardi illumina, e che merita una vera riflessione: l’incidenza del “fattore umano”, delle esperienze personali, ai fini della definizione di una personalità, e quindi nel modellarsi di un pensiero. Hodgskin fa i conti, sin da quando ha dodici anni, con le durezze tremende della disciplina navale e la pratica feroce della coscrizione di mare, a cui dedica un saggio fiammeggiante. Ecco, forse l’essersi misurato personalmente con un “virus” di questo tipo gli ha stimolato “l’anticorpo” di una sana e radicata diffidenza nei confronti di qualunque autorità e di qualunque potere.

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