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I populisti Grillo, Le Pen e Trump visti da Judis

Judis

John B. Judis è stato senior editor di The New Republic, è un commentatore e analista originale e non conformista, e ha appena pubblicato un libro che va al cuore dell’ondata politica in corso al di qua e al di là dell’Atlantico, comunemente definita “populismo”.

Il tentativo dell’autore è quello di mettere ordine, di cercare un filo conduttore e un denominatore comune. Pur sapendo bene che non tutto può essere “affasciato” e accomunato, trattandosi di fenomeni che hanno manifestazioni di “destra” e di “sinistra” (e anche alcune non incasellabili secondo i tradizionali schemi politici). Judis cerca però di inserirli in una prospettiva storica, e anche di individuare una “causa”, un “innesco”, un fattore scatenante.

Il punto di partenza è ovvio: “the people versus the establishment”, il popolo contro le élites dominanti. Meno ovvia, e quindi particolarmente meritoria, è l’opera di distinzione tentata da Judis. “The people” è in realtà un insieme di molte cose assai diverse: un ceto medio impaurito e impoverito, ma anche una classe di colletti blu che non trova risposte nella sinistra tradizionale, più un magma giovanile-studentesco poco classificabile in base alle antiche categorie politiche. Allo stesso modo, l’establishment è anch’esso eterogeneo e multiforme: certamente al centro c’è la “casta” politica, ma anche quello che viene percepito come il mondo della finanza (il famigerato 1% a cui si contrapporrebbe il 99% dei cittadini, secondo gli slogan di Occupy Wall Street), e in generale la galassia dei detentori del potere (politico-finanziario-editoriale, ecc).

Judis ha un ulteriore merito (purtroppo – però – non mi pare che porti l’analisi alle sue conseguenze finali, e a una necessaria pars construens, ma ci verremo alla fine), ed è quello di ricondurre l’esplosione di questo fenomeno alla crisi economico-finanziaria partita nel 2008-2009, come se oggi fossimo dinanzi a un effetto politico ritardato di quella vicenda (e, aggiungo io, del modo in cui essa è stata raccontata).

Ma facciamo un passo indietro. Judis, pur a mio avviso con qualche semplificazione e omogeneizzazione di troppo, coglie un punto. C’è stato un trentennio, nell’Occidente avanzato, in cui l’”essenza” delle ricette politiche vincenti è stata legata alle libertà economiche. In ordine di tempo, prima Reagan e Thatcher, con il trionfo della supply-side economics, e poi, come conseguenza, una trasformazione in senso pro-mercato anche nelle sinistre occidentali, con Clinton e Blair: insomma, i New Democrats clintoniani e la terza via blairiana come “figli” di una rivoluzione che ha finito per cambiare i connotati anche alla sinistra occidentale. A destra e sinistra, quindi, l’affermarsi del paradigma della crescita economica.

Ecco però, nel racconto-analisi di Judis, i primi segni di contraddizione. Già negli anni Novanta, in America, due casi di proposte politiche contro-corrente: battuti, ma forti e significativi. Sul versante indipendente, la candidatura alla presidenza Usa di Perot (“no al commercio internazionale, no al Nafta, sì ai prodotti americani, no agli interventi militari internazionali”, ecc.) e la candidatura alle primarie repubblicane (per due volte, nel 1992 e nel 1996) di Buchanan (“perché le missioni estere? l’America di Bush non ha compreso la sfida economica del Giappone”, ecc). Ma in entrambi i casi, una crescita economica sostenuta e il successo del modello esistente hanno di fatto fermato la corsa di questi outsider controcorrente, sul versante destro.

Più avanti nel tempo, e più vicino temporalmente a noi, nasce sul lato sinistro (e in qualche caso, sul lato dell’estrema sinistra sociale) il fenomeno di Occupy Wall Street: così forte nei suoi effetti da indurre lo stesso Obama a usare quegli argomenti anti-finanza e da populismo di sinistra contro il suo avversario Romney nel 2012.

E finalmente giungiamo, nel percorso disegnato da Judis, alle primarie e poi alla campagna presidenziale del 2016, oggettivamente dominata per un verso dal futuro vincitore Trump e per altro verso, sul lato democratico, dal ruolo giocato da Sanders. Qui, a mio avviso per amore eccessivo di simmetria, Judis tende troppo ad omogeneizzare i fenomeni, dimenticando che – piaccia o no – il programma fiscale di Trump è stato di limpida impronta liberale antitasse, esattamente il contrario della linea Sanders. E’ vero però (questo è innegabile anche per i sostenitori di Trump) che pure da parte del neopresidente Usa l’approccio è a favore di megapiani di spesa (porti, strade, autostrade, ecc). Nel caso di Sanders, si tratta addirittura del suo marchio di fabbrica: più tasse, più spesa, Medicare per tutti, college gratis per i giovani, e via spendendo. Sarà anche per la passione che Sanders ha mostrato e trasmesso (in alternativa alla freddezza robotica della Clinton): sta di fatto che il vecchio socialista ha egemonizzato culturalmente la campagna democratica, inducendo la stessa Clinton a spostarsi radicalmente a sinistra e a inseguirlo.

Quanto al successo di Trump, invece, la cosa mi pare più complessa di come la pone Judis. I punti essenziali a me paiono due: primo, la delusione verso un ceto politico che non ha realizzato le sue promesse. Secondo, la capacità di Trump di rivolgersi a una “maggioranza silenziosa” espulsa per anni dall’agenda politica ufficiale. Se poi a questo si somma la capacità trumpiana di descrivere i politici tradizionali come prigionieri degli special interests, il gioco è fatto.

Nell’ultima parte del suo volume, Judis si dedica anche ai populismi europei. La sua rassegna (su Podemos in Spagna e Syriza in Grecia, sulla Le Pen in Francia, sui grillini in Italia) è accurata e ricca di attenzione, trattandosi di un autore americano. Ed è anche molto corretto il suo sforzo di mostrare come le matrici politiche siano diverse: più di sinistra nei primi due casi, più di destra nel terzo, meno incasellabile per il M5s. Allo stesso modo, Judis ha mano felice nel mostrare come in Europa, oltre alla crisi economica, abbia giocato anche il fattore legato all’immigrazione, all’incapacità sia dei vertici europei sia dei principali governi nazionali di gestire in modo razionale e credibile i flussi.

Convincono meno – in conclusione – due cose. La prima: un’attenzione a mio avviso non pienamente adeguata al fenomeno Brexit. Certo, in quel voto hanno avuto un ruolo l’immigrazione e il rifiuto di questa Ue. Ma mi pare che a Judis sfugga la pars construens, cioè il fatto che in questo caso siamo dinanzi a una scelta politica che apre un’opportunità, che fa di un paese un potenziale superhub globale capace di attrarre risorse e investimenti grazie al taglio secco di tasse e burocrazia.

La seconda. Non mi pare che Judis sviluppi fino in fondo proprio il tema che ha correttamente individuato e messo nel sottotitolo del libro: e cioè il ruolo della crisi finanziaria globale nell’innescare questi fenomeni politici. Se tu (e questa è stata la responsabilità di troppi nel nostro Occidente) butti via il bambino con l’acqua sporca, e quindi delegittimi il mercato, la libertà economica, il commercio internazionale, l’immensa ricchezza che hanno prodotto, lo straordinario crollo della povertà che hanno determinato, e invece accetti/subisci la narrativa opposta secondo cui proprio il mercato sarebbe responsabile di tutti i mali del pianeta, poi non puoi stupirti della fioritura – a destra e a sinistra – di movimenti antiliberali. La storia insegna che, da duecento anni a questa parte, dopo una crisi economico-finanziaria e dopo una recessione, spesso c’è un’impennata populista e anti-mercato. Tocca ai liberali (se ci sono) resistere all’ondata e tenere vive le nostre buone ragioni. Anche per il bene di chi oggi grida e strepita.

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