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Tutti i perché della scissione nel Pd

scissione Enrico Rossi e Pierluigi Bersani

Solo nei prossimi giorni sapremo se la divisione all’interno del PD diverrà irreparabile. Se quella terribile parola – scissione – secondo il lessico di Matteo Renzi, avrà sprigionato tutta la sua forza evocativa. Una follia? Un atto sconsiderato? Come sostenuto dalla maggior parte dei commentatori e da molti esponenti di quel che resterà della vecchia organizzazione. Chi ragiona in questo modo non tiene conto della storia e delle sedimentazioni non solo culturali che quella storia ha prodotto. Partiamo da lontano. Ma solo perché il vissuto di molti dirigenti “scissionisti” è il figlio diretto di avvenimenti lontani, che hanno segnato il loro DNA e rappresentato la bussola del loro quotidiano operare: sia nel bene che nel male.

La nascita del partito comunista, o meglio del Pci “sezione italiana dell’internazionale comunista” fu conseguenza della scissione di Livorno e dalla fuoriuscita di un nutrito gruppo di militanti dal vecchio Partito socialista. Fu un atto calcolato, che rispondeva alle direttive che provenivano da Mosca. Fu lo stesso Lenin a suggerire la rottura. Uscite dal PSI, costituite un’organizzazione autonoma e poi, semmai, fate le eventuali alleanze. Ma sempre da una posizione di autonomia. Certo, nel 1921, le cose erano diverse. Si volevano rappresentare gli interessi del proletariato, ritenuto essere l’unica “classe generale”, la cui storica missione era l’avvento di “una società superiore”, in grado di abbattere lo sfruttamento capitalistico. Cose che oggi non esistono più a seguito della crescita impetuosa di quella classe media che ha cambiato la geografia sociale di tutto il Pianeta. E che nella stessa Cina – l’hub industriale del Mondo – sta diventando prevalente.

L’autonomia, culturale ancor prima che politica, è, tuttavia, rimasta. Una grande stella polare che ha orientato la storia del più forte partito della sinistra italiana. Autonomia non solo verso le altre forze politiche italiane, ma anche nei confronti dei “partiti fratelli”, con alla testa il PCUS. Il cemento dell’internazionalismo proletario non ha mai impedito al PCI di avere una propria posizione sui fatti che riguardavano l’evoluzione della situazione interna ed internazionale. E quando quest’autonomia si è appannata, come per i fatti di Ungheria, nel lontano 1956, il partito pagò un prezzo salato. Molti furono i quadri, specie di estrazione intellettuale, che lo abbandonarono. Una ferita che richiese molto tempo per rimarginarsi. E che lasciò un segno profondo, come fu evidente per i successivi fatti della Cecoslovacchia. La primavera di Praga fu una spina nel fianco nei rapporti con i sovietici. Al punto da spingere lo stesso Enrico Berlinguer a rivalutare il ruolo della NATO. Da sempre considerata, in precedenza, il cavallo di Troia dell’imperialismo americano.

Questi brevi cenni dimostrano l’esistenza di una linea di continuità che ha inciso profondamente sul modo di ragionare dei longevi dirigenti di quel partito. D’Alema, Bersani, e via dicendo, a differenza di Veltroni, sono vissuti all’interno di questa bolla ideologica. Ed ora chiedere loro di romperla per seguire un piccolo “papa straniero” com’è Matteo Renzi, senza nemmeno aver la possibilità di discutere all’interno del movimento, è qualcosa che negherebbe in radice l’esperienza di una vita. Si trattasse almeno di un leader – Matteo Renzi – capace di fornire una sua “visione” del Paese. Ed invece la sua è soprattutto “comunicazione”. Un’affabulazione che, nella visione dei post-comunisti, spesso scade nell’avventurismo.

Le dure contrapposizioni che si sono viste in questi giorni nascono da questi due punti di vista inconciliabili. Per il gruppo dell’ex Margherita, la politica è soprattutto “gestione” e pragmatismo. Vecchia lezione democristiana. Quando, tuttavia, tutto era più semplice. Gli equilibri strategici del Paese erano garantiti dalla “guerra fredda”, l’economia, pur con mille contraddizioni, andava avanti, l’Europa era un sogno palingenetico. Cose, oggi, venute meno. Per i post comunisti, invece, vanno ridisegnate le mappe. A partire da una situazione internazionale che non si presta a facili letture. Trump, la crisi europea, il rapporto molto più complesso tra sviluppo, stabilità finanziaria, e lotta alle “nuove e vecchie povertà”. Per riprendere l’espressione che segnò la Conferenza di Rimini, del Partito socialista di Bettino Craxi e di Martelli. Essi stessi figli di una stessa struttura antropologica.

Vista in questa chiave, la discussione sul congresso e sulle relative modalità di svolgimento, che poi ha rappresentato il motivo vero del contrasto, al di là degli eccessi di politicismo, aveva un contenuto che andava oltre la congiuntura. Non era solo la resa dei conti all’interno di un gruppo dirigente diviso da troppe incomprensioni. Era il tentativo, almeno nell’ottica degli esponenti della “ditta”, di far rivivere la loro autonomia di pensiero all’interno di un contenitore più vasto. E contribuire alla formazione di un gruppo dirigente che non fosse solo figlio delle vecchie pratiche democristiane. Che, comunque, avevano come presupposto un pluralismo – le diverse correnti organizzate – che Matteo Renzi ha più volte rifiutate. Dicendo che non era l’uomo dei “caminetti” o dei “conciliabili”. Ma il leader carismatico della nuova formazione.

Di fronte a questa prospettiva non rimaneva che la scissione. Rimettere in piedi un’organizzazione capace di misurarsi, in piena autonomia, con le asprezze del presente. In un momento particolarmente difficile per la vita del Paese. Segnato dall’incalzare dei grillini, dalla confusione che regna a destra, dalla crisi economica e finanziaria e via dicendo. Una scommessa? Forse. Un rischio? Certamente. Ma la crisi italiana è tale da richiedere chiarezza di idee. E non certo un semplice rassemblement di ceto politico.

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