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Chi è (e cosa pensa) il mio amico Jim Mattis

Jim Mattis

Ho conosciuto Jim Mattis nei primi mesi del 2008: io appena nominato capo di Stato Maggiore della Difesa, Jim comandante del Nato Allied Command for Transformation (Act), con doppio berretto, in quanto anche Comandante del parallelo US Joint Forces Command.

Eravamo insieme a una delle periodiche riunioni del Comitato militare dell’Alleanza atlantica, in cui i capi di Stato Maggiore, unitamente ai Comandanti Supremi, Saceur e Sact, analizzano situazione, operazioni e ogni problematica connessa, per individuare insieme i provvedimenti da prendere.

Sono occasioni in cui si allacciano rapporti personali oltre che professionali, si impara a conoscersi e ad avere confidenza reciproca.

UN MARINE SENZA “RAMBISMI”

Jim Mattis mi colpì molto: da un generale dei Marines uno si aspetta un atteggiamento duro e determinato, una certa dose di “rambismo”, una tendenza all’azione senza tentennamenti. In sintesi, ci si attende che venga portato all’estremo quello stereotipo del militare che ancora ha radici profonde nell’immaginario popolare ed anche nel mondo giornalistico.

Mi ricordo a questo riguardo il mio primo incontro con Lucia Annunziata, negli Usa a una serie di seminari a porte chiuse: dopo un paio di giorni, Lucia si girò verso di me e verso Mario Arpino, anch’egli presente, dicendoci “Certo voi due siete dei generali un po’ strani!”. Lo prendemmo, nelle sue intenzioni, come un complimento.

Tornando a Mattis, durante le nostre riunioni i suoi interventi si segnalarono per acutezza di analisi, pacatezza e lungimiranza, al contrario di quanto osservai in Bantz Craddock, l’allora Saceur, che non mi fece certamente una buona impressione, per una certa dose di supponenza e con il quale ebbi anche uno scambio pubblico abbastanza teso.

Durante un trasferimento nei corridoi del Quartier Generale, mi trovai accanto a Jim e la conversazione che facemmo mi confermò nelle mie impressioni. In quel periodo era molto vivace il dibattito dottrinario: si consolidavano i principi delle Network Centric Operations (terminologia Usa) o Network Enabled Capabilities (terminologia britannica, fatta propria dalla Nato) e fra i concetti più discussi una parte importante la rivestivano le Effect Based Operations (Ebo).

DIBATTITI TEORICI E SAGGEZZA PRATICA

Si tratta d’un concetto che ha le sue radici nella prima guerra del Golfo, per merito d’un Tenente Colonnello dell’Usaf, in seguito salito al grado di Tenente Generale (“tre stelle”), David Deptula.

Deptula osservò che nella pianificazione strategica di un’operazione, invece di seguire le procedure tradizionali (sconfiggo sul campo il nemico per imporgli la mia volontà), bisogna in primo luogo identificare l’interesse vitale dell’avversario, il suo ‘centro di gravità’ concettuale: da qui è possibile avviare un’analisi per definire in che modo ‘minare’ questo centro di gravità; e si può scoprire che per farlo sono sufficienti azioni di tipo collaterale, con minori rischi e minore dispendio di energie rispetto ad uno scontro frontale.

Francamente, a me sembrava un concetto di straordinaria banalità: la strategia si è sempre basata su un approccio di questo tipo, tranne forse durante la Prima Guerra mondiale, ma già Lee durante la Guerra di Secessione operava secondo questi principi e non prevalse solo per motivi di carattere logistico e per una evidente disparità delle forze.

Non mi lasciai sfuggire l’opportunità di parlarne con Mattis, il cui comando era responsabile proprio dell’elaborazione dottrinale, e gli chiesi a bruciapelo che cosa ne pensasse, atteso che a mio avviso, nella storia, qualsiasi bravo generale aveva operato gestendo le proprie risorse in modo da conseguire l’effetto finale che si era prefisso e che quindi di Ebo era fatta tutta la storia militare.

La risposta di Jim fu fulminante: “Vedi Enzo, negli Stati Uniti ogni tanto qualcuno si sveglia al mattino ed esclama ‘Eureka’, convinto di essere stato illuminato da un concetto che rivoluzionerà la storia del pensiero. Il punto è che immediatamente trova dei seguaci che contribuiscono all’elaborazione e alla diffusione del ‘verbo’; il dibattito si amplia alle università, ai think tank e in breve il ‘nuovo’ concetto diventa dominante. Ma non ti devi preoccupare: così come è nato, altrettanto rapidamente scompare e nessuno ne parla più”.

CANE PAZZO? NO, UN MILITARE INTELLETTUALE

Ho sempre considerato quella risposta come indicatrice di una mente lucida, priva di pregiudizi, il cui pragmatismo si nutre di approfonditi studi storici e politici e occasioni successive, dirette e indirette, mi hanno confermato la correttezza di questa impressione iniziale.

Considero Jim Mattis un intellettuale, esattamente l’opposto di quanto può fare pensare il bizzarro nomignolo di ‘Mad Dog’, un generale che conosce dall’interno che cosa significhi l’uso della forza militare e che proprio per questo è e sarà molto prudente ed oculato nel suo impiego.

La sua visione politica, dalle dichiarazioni rilasciate durante le audizioni al Senato per la sua conferma, appare perfettamente in linea con un approccio classico e razionale, diversamente da quanto possiamo osservare da parte del suo presidente. C’è solo da domandarsi se saprà farsi ascoltare: personalmente mi auguro di sì, anche perché mi inorgoglisce molto poter chiamare per nome il segretario alla Difesa Usa.

Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.

(Articolo pubblicato sul sito AffarInternazionali

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