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Cosa pensa davvero Pier Luigi Bersani di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi

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Grazie a quel geniaccio di Michele Arnese e al suo Pietro Di Michele scopro qui, su Formiche.net, che Pier Luigi Bersani è il fondatore, con l’ex ministro delle Finanze e compagno di partito Vincenzo Visco, dell’Associazione Nuova Economia Nuova Società. La notizia è eccellente. Mi spiace solo il ritardo col quale mi è arrivata. Colpa naturalmente mia, interamente mia. Essa peraltro mi riconcilia col Bersani dei tempi migliori: non solo con quello col quale mi capitò una sera di 28 o 29 anni fa di cenare e discorrere amichevolmente a Saint Vincent, ospiti entrambi dell’indimenticabile e carissimo Carlo Donat-Cattin. Che soleva radunare nei convegni autunnali della sua corrente democristiana Forze Nuove il meglio delle intelligenze politiche del Paese. La notizia mi riconcilia anche col Bersani ministro dell’Industria e Commercio, o com’altro si chiamasse in quel momento: un ministro -glielo riconosco molto volentieri- più liberale, o liberalizzatore, dei tanti che lo avevano preceduto e sarebbero arrivati dopo. A lui dobbiamo, fra l’altro, l’abolizione di quei cinque euro che dovevamo perdere ad ogni ricarica telefonica e la possibilità di cambiare gestori e fornitori di servizi anche senza farci assistere da un avvocato.
Sempre grazie al direttore di formiche.net e al suo Di Michele, ho letto stralci interessantissimi di un’analisi critica delle scelte fatte nei più diversi settori dal fu governo di Matteo Renzi nei mille e più giorni di attività, bruscamente interrotti -come si sa- dalla disfatta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale: un’analisi articolata in 13 punti e in sette pagine per conto del centro studi bersaniano dagli economisti Salvatore Biasco, Pierluigi Ciocca, Ruggero Paladini e naturalmente Vincenzo Visco, il già citato ex ministro delle Finanze e cofondatore dell’associazione. È un’analisi pungente, di natura politica e non solo economica, come nel passaggio critico sulle mancate dimissioni di Maria Elena Boschi dal governo Renzi quando esplose la vicenda della Banca Etruria: quella vice presieduta dal padre, e dove lavorava un fratello della ministra, per non parlare dei suoi personali e molto parchi investimenti. Le dimissioni -hanno riconosciuto gli analisti- non sarebbero forse state necessarie sul piano tecnico, ma sarebbero state utili al governo di Renzi, e al Pd, sul piano “comunicativo”, cioè propagandistico.

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Contro le mie abitudini, e in deroga al suggerimento professionale datomi una volta da Indro Montanelli di non dare consigli a nessuno, non dovendone i giornalisti dare mai ma solo chiederne per informarsi meglio, vorrei suggerire a Bersani di andare domenica prossima all’assemblea nazionale del Pd, senza disertarla, come magari gli avrà proposto o ha già concordato con Massimo D’Alema nel “pranzo della scissione” appena annunciato con compiacimento sulla prima pagina del Fatto Quotidiano. Gli converrebbe invece andare ed esporre quelle sette pagine di analisi critica di ciò che per tre anni ha fatto Renzi alla guida del governo.
Saranno probabilmente necessari all’ex segretario del Pd più dei dieci o quindici minuti che nella riunione della direzione del partito, lunedì scorso, sono stati assegnati ad ogni oratore. E per l’uso dei quali ho trovato esemplare -lo dico per inciso- il governatore della Campania Vincenzo De Luca, insorto alla fine della seduta contro il “masochismo” dei suoi compagni di partito. Ma non credo proprio -tornando a Bersani- che il presidente dell’assemblea, Matteo Orfini, avrà il coraggio di togliere all’ex segretario del partito la parola se gli dovesse servire più tempo per esprimere la sua opinione contro il congresso in tempi brevissimi: “cotto e mangiato”, ha detto alla direzione polemicamente proprio Bersani, dichiaratamente “in ansia” o “sotto stress” per i ruolini di marcia di Renzi.

Quelle sette pagine di analisi critica e gli elementi aggiuntivi che Bersani potrebbe considerare opportuni potrebbero aiutare il dibattito, non foss’altro per avere la garanzia, che troverei ragionevolissima, che di quella materia lì si possa, anzi si debba discutere al congresso, senza stare a riproporre in termini più o meno ultimativi e minacciosi la questione dei tempi, della data e quant’altro. Se Bersani facesse questo, riuscendo a stimolare un’appropriata risposta di Renzi, anziché preparare preventivamente con D’Alema la scissione che, a suo avviso, sarebbe “già avvenuta” fra il partito e una parte importante della sua “gente”, o elettorato, per cui non resterebbe che sancirla, mi dispiacerebbe solo non avere i titoli per essere lì anch’io e applaudirlo. E offrirgli poi un sigaro. E magari fare anche concorrenza allo storico, non torero, Miguel Gotor nel rito delle congratulazioni.
Ma temo che Bersani non farà nulla di tutto questo non solo per via del pranzo con D’Alema, salvo smentite naturalmente, ma anche per l’appello ch’egli ha preferito lanciare pubblicamente ai vari Dario Franceschini e Andrea Orlando a far cambiare idea al segretario, cioè ad abbandonarlo. È qui il limite del confronto nel Pd. L’obiettivo non è di convincere ma di rovesciare. E’ un partito nel quale il mio amico Aldo Moro non si sarebbe mai riconosciuto proprio per questo, anche se è affollato di presunti morotei.

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Dal Pd ai grillini, e alla loro nuova offensiva contro i giornali “manipolatori”. Che hanno compiuto l’errore di usare contro Luigi Di Maio, quello dei congiuntivi sbagliati e del Pinochet venezuelano anziché cileno, solo pezzi di sue lunghe chat per presentarlo come estimatore, anziché critico, di Raffaele Marra, l’ormai ex braccio destro o sinistro della sindaca di Roma Virginia Raggi, da metà dicembre in carcere per presunta corruzione in anni precedenti all’attuale amministrazione capitolina.
Adesso ho capito -non per scherzo, ma davvero- che cosa è mancato ai partiti della cosiddetta, odiata prima Repubblica per salvarsi dalle ghigliottine giudiziarie, e accessori. E’ mancata la guida di un comico capace di farsi sentire come adesso Grillo a difesa dei suoi, reclamando dai giornali le scuse ad ogni attacco o errore compiuto spulciando le carte delle Procure, o aprendo quelle selezionate e passate da qualche malintenzionato. Allora quei partiti non seppero trovare e darsi un difensore così agguerrito e, diciamolo, così efficace.
Temo che avrà bisogno, prima o dopo, di uno come Grillo anche Gianfranco Fini, entrato pure lui nel frullatore giudiziario per concorso in riciclaggio con la sua compagna e familiari.

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