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Perché mi paiono un po’ politiche le motivazioni della Consulta sulla legge elettorale

Daniele Capezzone

Ho letto con attenzione le decine e decine di pagine di motivazioni della Corte Costituzionale, che hanno fatto seguito alla parziale pronuncia di incostituzionalità dell’Italicum (legge, com’è noto ai lettori di questa rubrichina, da me per nulla amata, anzi).

Vi ho trovato osservazioni interessanti, notazioni di maggiore o minore pregio, tesi più o meno condivisibili. Ma – appunto – valutazioni politiche, discrezionali, opinabili, proprie più di un dibattito parlamentare o di una mozione congressuale che non di un severo scrutinio costituzionale.

In America, e penso al lavoro della Corte Suprema, un gigante come Antonin Scalia (recentemente scomparso, e appena sostituito da un magistrato di simile orientamento culturale indicato da Trump) amava ripetere che la sua scuola giuridica (l’”originalism”) potesse essere ancora meglio chiamata “textualism”. In altre parole, il compito del giudice costituzionale non è quello di interpretare troppo largamente, di farsi demiurgo dello spirito del tempo, ma quello di “stare al testo” della Costituzione, che dovrebbe significare oggi quel che significò – nella sua sostanza – quando fu scritta. E – spiegava Scalia – quella fedeltà alle parole, quella lealtà al testo scritto, è anche il principale fattore di certezza del diritto, e in ultima analisi di vera tutela del “little guy”, del cittadino comune.

In Italia, invece, è ormai da decenni invalsa una politicizzazione totale delle decisioni della Corte. Possono piacere o no: ma sono testi politici, opinabili e discutibili tanto quanto un discorso politico, sia pure di elevato livello.

E non a caso – tornando all’Italicum – sono stati bocciati due elementi (parzialmente le pluricandidature, e totalmente il ballottaggio) che, bene o male, esistevano da tempo tra leggi elettorali nazionali, regionali, comunali, eccetera. Per molti anni, non erano stati ritenuti incostituzionali (giusti o sbagliati che fossero): ora, invece, sì. Che dire? It’s politics, il diritto che c’entra?

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