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Ecco come Marco Travaglio del Fatto Quotidiano scarica (a sorpresa) Virginia Raggi

Virginia Raggi e Marco Travaglio

“La Raggi, sempreché riesca a fugare tutte le ombre di cui sopra, ritiene di poter reggere alle due guerre concentriche e continuare (o cominciare) a governare Roma, ben sapendo che la sua lapidazione – a cui ha contribuito anche lei con i suoi errori – continuerà fino all’ultimo giorno di mandato? Se sì, dica come e perché (magari chiedendo un chiarimento definitivo ai nemici interni). Se no, faccia quel che da un po’ di tempo le suggeriamo, a prescindere dalla veridicità delle accuse a suo carico: si dimetta, anche per non aver commesso il fatto”. Così termina oggi l’editoriale del Fatto Quotidiano firmato da Marco Travaglio, direttore del giornale fondato da Antonio Padellaro.

In verità, ad auspicare le dimissioni del primo cittadino pentastellato di Roma, all’interno della grande famiglia del Fatto, era stato finora il direttore del Fatto Quotidiano on line, Peter Gomez, più che Travaglio, che dirige il quotidiano cartaceo (QUI LA RICOSTRUZIONE DI FORMICHE.NET SULLE DIFFERENZE DI VEDUTE RECENTI FRA TRAVAGLIO E GOMEZ SU VIRGINIA RAGGI).

LE POSIZIONI RECENTI DI MARCO TRAVAGLIO SU VIRGINIA RAGGI

Il 26 gennaio Travaglio difendeva infatti Raggi sul caso Marra (qui l’approfondimento di Formiche.net): nel suo consueto editoriale, nel quale ha prima ironizzato sull’articolo del giorno prima scritto da Fabrizio Roncone del Corriere della Sera (tra l’altro duramente contestato da Beppe Grillo sul suo blog), ha poi snocciolato alcuni passaggi di quella che potrebbe essere la prossima strategia difensiva di Raggi. Il nodo del contendere, o meglio l’oggetto dell’indagine cui è sottoposto il sindaco di Roma, com’è noto riguarda la promozione alla guida del dipartimento Turismo del Campidoglio di Renato Marra (fratello dell’ex braccio destro di Raggi Raffaele finito in carcere prima di Natale) che fino a quel momento aveva ricoperto la carica di vicecapo della Polizia Municipale. Il direttore del Fatto ricostruiva così il 26 gennaio sul Fatto l’inchiesta: “La Raggi ha detto all’Anticorruzione di aver deciso lei di promuovere a direttore del Turismo Renato Marra, fratello del più noto Raffaele, e invece avrebbe mentito (di qui l’accusa di falso) per coprire il conflitto d’interessi fra i due congiunti e la mancata “valutazione comparativa dei curricula degli aspiranti dirigenti”(di qui l’accusa di abuso)“.

Una fotografia non priva di limiti secondo Travaglio per il quale a mancare – in questo contesto – era la prova regina: l’esistenza di una conversazione diretta tra Raggi e Marra in cui si parli esplicitamente del nuovo incarico da affidare a Renato: “Ora, se le parole hanno un senso, per sbugiardare la Raggi ci vorrebbe la prova di una raccomandazione di Raffaele alla Raggi, non una frase detta al fratello o all’assessore“. I giornali però – prosegue l’editoriale – “danno già per scontato che la sindaca è colpevole. Infatti annunciano che i pm chiederanno il “giudizio immediato” prim’ancora di interrogarla: nel qual caso non si vede perché mai le abbiano spedito un invito a comparire anziché direttamente il rinvio a giudizio“.

È a questo punto che il commento di Travaglio del 26 gennaio si arricchisce di un particolare inedito (passato inosservato sulla maggioranza dei quotidiani) di cui con ogni probabilità la stessa Raggi si avvarrà nel corso del suo interrogatorio: si tratta del “regolamento degli uffici e dei servizi di Roma Capitale” il quale all’articolo 38, comma 2, stabilisce che gli incarichi delle direzioni sono conferiti e revocati dal sindaco d’intesa con gli assessori competenti senza alcuna valutazione comparativa dei curricula di altri aspiranti “la cui mancanza è contestata come abuso d’ufficio“. Regola che il direttore del Fatto commenta con queste parole: “Insomma, i direttori delle direzioni comunali se li sceglie il sindaco, infatti scadono quando scade lui. Una norma che sembra indebolire l’accusa di abuso“.

Travaglio non era nuovo – fino a oggi – a discese in campo in difesa di Raggi e Marra (tanto da sollevare critiche mai esplicite di personalità vicine al Movimento 5 Stelle come ad esempio Elio Lannutti). Lo aveva fatto anche il 17 settembre scorso, come ricordato ieri dal sito renziano de l’Unità. Sia in quell’editoriale che in una immaginaria lettera scritta alla sindaca, Travaglio aveva sottolineato come Marra fosse incensurato e non indagato, prendendosela con i giornali (a partire dal Messaggero) che continuavano a tenere accesi i riflettori sul dirigente entrato in Campidoglio con Gianni Alemanno. Ecco cosa aveva scritto in quell’articolo il direttore del Fatto Quotidiano: “Raffaele Marra, ex finanziere plurilaureato, è un dirigente pubblico passato dal ministero dell’Agricoltura all’Unire, dal Comune alla Regione, dalla Rai di nuovo al Comune. Ha collaborato con le giunte Alemanno e Polverini, come pure con Zingaretti e di Marino, almeno finché non lo cacciavano, il che avveniva regolarmente perché troppo “giacobino” (parola di Alemanno), cioè perché denunciava un sacco di porcherie in Procura. Appena la Raggi l’ha chiamato come vicecapo di gabinetto, è diventato il paria, l’appestato, l’uomo nero. Per smorzare la tensione, la sindaca l’ha spostato al Personale. Invano: Marra continua a occupare ogni giorno una o due pagine dei giornaloni“.

Nel suo editoriale del 17 dicembre scorso, il direttore del quotidiano cartaceo non attaccava frontalmente la Raggi, come invece hanno fatto altri colleghi di testata. Anzi la difendeva, facendo capire che non dovrebbe dimettersi. “La Raggi non è indagata di nulla” ha messo in chiaro, riconoscendo che Marra è un suo “stretto collaboratore” e quindi non uno qualunque dei 23mila dipendenti capitolini. Nel parallelismo tra il caso Raggi e l’indagine sul sindaco di Milano Beppe Sala del Pd in merito a un appalto di Expo, Travaglio evidenziava la sproporzione, dato che la sindaca grillina si è solo “fidata di un dirigente mai indagato (caso più unico che raro al Campidoglio) né sospettato di essere un ladro”. Sì, ha ammesso Travaglio, “col senno di noi, (la Raggi, ndr) ha sbagliato”, ma “non risulta che Marra abbia commesso reati sotto questa giunta (altrimenti la sindaca si dovrebbe dimettere)”. Tradotto, la Raggi non si deve dimettere, Travaglio dixit. “Poteva la Raggi immaginare che tre anni fa Marra si era fatto pagare una casa da Scarpellini? Alzi la mano chi lo sapeva, o lo pensava”.

Un copione analogo compare nell’editoriale domenicale di Travaglio, che apre il Fatto puntando sulla differenza di trattamento tra la Raggi e Sala e tuonando contro i pentastellati che vogliono silurare Virginia. “Tra i più feroci censori della sindaca – scrive – ci sono alcuni dei suoi compagni (si fa per dire) di movimento, riuniti in permanenza per processarla in contumacia (la presenza dell’”imputata” non è prevista), che pretendono, in alternativa o in accumulo: la testa della Raggi, quella del vicesindaco Frongia, quella del suo capo-segreteria Romeo. I quali non sono accusati né indagati di nulla e non si sa bene di che debbano rispondere, a parte dell’essersi fidati di un dirigente mai inquisito né sospettato di corruzione fino all’altro ieri”. “Anziché invocare la testa di questo o quello – incalza -, capi e campetti dei 5 Stelle farebbero bene a ragionare con loro, di testa, e non con le viscere. Partendo dall’unica bussola che dovrebbe orientarli: le aspettative dei romani che sei mesi fa hanno chiesto loro di governare la Capitale”. Quindi la sentenza: “Se la Raggi fosse stata beccata a commettere reati o a tenere condotte indecenti, andrebbe sfiduciata. Ma non è questo il caso”.

GOMEZ E PADELLARO SCARICAVANO LA SINDACA

Ben altra posizione avevano espresso in quei giorni Peter Gomez e Antonio Padellaro, rispettivamente direttore de ilfattoquotidiano.ited ex direttore della testata cartacea, ora editorialista e presidente della società editrice del quotidiano diretto da Travagli. “Nella vita c’è qualcosa che si chiama responsabilità politica – ha scandito Gomez nella diretta Facebook di giorni fa dalla redazione del quotidiano online -. Virginia Raggi è stata avvertita da più parti e dall’interno anche del suo Movimento del rischio che rappresentava Marra, poi un giorno ha avuto una notizia: questo signore ha avuto uno sconto di 500mila euro su una casa dal costruttore Scarpellini, costruttore contro il quale il suo M5S si è sempre schierato perché considerato un palazzinaro. Allora uno si domanda o meno perché di quello sconto. Gliel’ha fatto perché è simpatico o perché lavora in Comune? Io non ho risposte su questa cosa, ma dato che il Comune ha 23mila dipendenti ne prendo un altro”. Addirittura secondo Gomez, “c’è un evidente contrasto tra i principi che il Movimento dice di sostenere e il suo (della Raggi, ndr) comportamento, è una roba di una evidenza solare, ed è anche evidente che questa giunta va al massacro”. “Vogliono andare avanti con questa situazione per mesi? Per essere massacrati?” si chiede il direttore del Fatto online. “Dimostrino un po’ di serietà e stacchino la spina, dicano cara Virgina Raggi, ci siamo sbagliati, non dovevamo permettere a una persona che nel suo curriculum aveva mentito su un particolare non indifferente come gli anni del tirocinio trascorsi nello studio Previti, non dovevamo permetterti di candidarti, perché la trasparenza e il dire la verità è uno dei principi del Movimento 5 Stelle. E’ molto semplice, io spero che gli iscritti lo capiscano, perché se non lo capiscono sono solo tifosi”.

E in un editoriale del Fatto cartaceo, l’ex direttore Padellaro ha scritto che “la giunta Raggi si adopera con impegno per la distruzione dei Cinquestelle”. E ancora: “E’ la questione morale divenuta insensatezza, la sciatteria civica di chi scambia la fascia tricolore per un indumento, l’idea impunita di farla franca sempre e comunque. Oppure nel migliore dei casi la balordaggine di chi lascia l’auto con le chiavi sul cruscotto e poi si meraviglia del furto”. Quindi l’affondo: “La Raggi che dice ‘forse abbiamo sbagliato’, che definisce Marra ‘solo uno dei 23mila dipendenti comunali’ e i cittadini romani ‘il suo braccio destro’, suscita un misto di tenerezza e rabbia”. “Visto che ai vertici dei Cinquestelle in molti (segnatamente Roberta Lombardi e Paola Taverna) avevano lanciato l’allarme sul ‘virus Marra’ che ha infettato il Movimento, perché si è lasciato che tutto finisse come è andato a finire?” si chiede Padellaro, secondo cui “le altre vittime” sono “i milioni di elettori che nel 2013 diedero ampia fiducia al M5S”. “Oggi – aggiunge – è un brutto giorno per i Di Maio, i Di Battista e gli altri che si candidano alla guida del Paese, perché lo scandalo romano sembra dare torto alla speranza di un cambiamento vero nel governo del bene pubblico”.

Inoltre, nella rubrica domenicale “Senza Rete”, Padellaro tornava sull’argomento. “Un gigantesco chissenefrega sembra risuonare sulle condizioni di vita quotidiana dei quasi tre milioni di cittadini romani – scrive nell’edizione di oggi -. Quanto ai 770mila ‘disperati’ che sei mesi fa si affidarono all’ultima speranza Virginia, neanche a parlarne. Continuando così il Campidoglio diventerà un lugubre museo delle cere”.

 

ECCO AMPI STRALCI DELL’EDITORIALE ODIERNO DI TRAVAGLIO:

La Raggi Story si arricchisce di un nuovo mistero: le polizze assicurative sulla vita accese a favore di alcuni amici, fra i quali l’ex fidanzata e la futura sindaca, da Salvatore Romeo, allora funzionario del Campidoglio e futuro capo-segreteria della prima cittadina. Tre ipotesi possibili.
1) Se il suo era un modo astuto per comprarsi con 30 mila euro la futura nomina con aumento di stipendio, Romeo andrebbe sottoposto a perizia psichiatrica, per tre motivi: a) ha scelto il sistema più tracciabile che esista in natura; b) nel gennaio 2016, sei mesi prima del voto, l’elezione della Raggi a sindaco non era affatto certa; c) siccome la Raggi potrà incassare quei soldi solo alla morte di Romeo, questi avrebbe dovuto evitare di seguirla sui tetti del Campidoglio. In questo caso, matti o criminali che siano, né lui né la Raggi potrebbero restare ai loro posti un minuto in più. 2) Se quelli investiti (si fa per dire: il rendimento è minimo) da Romeo erano soldi della Raggi, il caso si sgonfia. 3) Se Romeo non disse alla Raggi di aver usato il suo nome per sostituire il precedente destinatario della polizza, Romeo sarebbe un bizzarro assicuratore seriale che agisce all’i n s a p uta della beneficiaria, e dovrebbe spiegare perché, mentre la sindaca dovrebbe scusarsi per la fiducia data all’ennesimo collaboratore sbagliato. Lo so a cosa state pensando: alla casa pagata da un altro all’insaputa di Scajola. Ma i rogiti immobiliari impongono la presenza del proprietario, mentre le polizze richiedono solo la firma del contraente e non del beneficiario. Mentre scriviamo, ci mancano le versioni dei due protagonisti: la Raggi avrà fornito la sua ai pm; Romeo non ha risposto alle nostre richieste di spiegazioni.

Non c’è segreto investigativo (salvo che il verbale sia stato segretato dalla Procura) che giustifichi il suo silenzio. Troppi particolari, penalmente rilevanti o meno, usciti sulla stampa in questi giorni, richiedono un chiarimento definitivo all’opinione pubblica. Ai cittadini romani che attendono di essere governati.

Agli elettori anche di altri partiti che l’hanno votata. E ai militanti 5Stelle che chiedono trasparenza. Una conferenza stampa, un’ospitata in un talk show, un’assemblea pubblica: veda lei come rispondere ai tanti interrogativi che si addensano sul suo capo. I)Quale esatta trafila ha portato Renato Marra, fratello del più noto Raffaele alla direzione Turismo del Comune? La decisione di promuoverlo in quella fascia dirigenziale (dalla 1 di dirigente dei Vigili alla 3 del Turismo), dopo averlo indotto a ritirare la domanda per una promozione più ambiziosa (a comandante della Polizia municipale, fascia 1), fu una sorta di “risarcimento danni” deciso autonomamente dalla Raggi, come prevede il Regolamento comunale che non contempla concorsi né raffronti con i curricula di altri pretendenti? O fu in qualche modo imposta o estorta dal tentacolare fratello, capo del Personale? II) Quella scelta è compatibile con la versione da lei fornita all’Anticorruzione capitolina, e cioè che aveva deciso da sola, o gli interventi del tentacolare capo del Personale (anche sull’assessore al Commercio, Meloni) sono andati al di là delle normali chiacchiere di corridoio? III) Si è parlato molto delle accuse lanciate all’altro pretendente alle “comunarie” dei 5Stelle, Marcello De Vito, dalla Raggi e dei suoi fedelissimi tra fine 2015 e inizio 2016 (a proposito di un accesso agli atti su un caso di condono edilizio e di un collaboratore di De Vito che per due anni usò il suo timbro per autorizzare se stesso a falsi permessi a spese del Comune): la deputata Roberta Lombardi, davanti ai pm, l’ha attribuito a Marra. Come e perché nacquero le accuse a De Vito? Erano mosse dalla preoccupazione di fare le pulci a un candidato attaccabile o dall’ansia di escludere un rivale scomodo? Quale diffusione ebbero quelle accuse nella base dei 5Stelle e quale influenza ebbero sull’orientamento degli 8 mila votanti alle primarie grilline? E quali rapporti c’erano, allora, se c’erano, fra la Raggi e il suo entourage da un lato e Marra dall’altro? IV) Una delle poche certezze, in questo ginepraio, è la guerra senza quartiere che si combatte fra i 5Stelle romani:da una parte gli amici della Raggi, ancora appoggiati dai vertici nazionali, e dall’altra quelli di Lombardi, De Vito e Fico. Una guerra intestina che si somma al bombardamento termonucleare delle tv dei partiti e dei media dei poteri finanziari e palazzinari, soprattutto dopo il no alla candidatura olimpica. La Raggi, sempreché riesca a fugare tutte le ombre di cui sopra, ritiene di poter reggere alle due guerre concentriche e continuare (o cominciare) a governare Roma, ben sapendo che la sua lapidazione – a cui ha contribuito anche lei con i suoi errori – continuerà fino all’ultimo giorno di mandato? Se sì, dica come e perché (magari chiedendo un chiarimento definitivo ai nemici interni). Se no, faccia quel che da un po’ di tempo le suggeriamo, a prescindere dalla veridicità delle accuse a suo carico: si dimetta, anche per non aver commesso il fatto.

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