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Vi spiego i perché delle tensioni fra Bruxelles e Tesoro

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Alla secca richiesta di Bruxelles (fateci conoscere nel dettaglio le misure che prenderete per ridurre il deficit di 3,4 miliardi) il Tesoro risponde con una lunga missiva e ben 80 pagine di allegato. Nella lettera si elencano le buone intenzioni, dopo aver ricordato brevemente lo stato dell’economia italiana. Le riforme fatte, le drammatiche emergenze legate ai terremoti ed al gelo che ha paralizzato gran parte della penisola, il tema non risolto dei rifugiati, l’impegno profuso, negli anni precedenti, per ridurre il deficit. Tutte cose buone e giuste, ma evidentemente insufficienti se la Commissione europea richiede una manovra correttiva. Tra le tante, ed in questo caso un esercizio di maggior auto controllo non avrebbe guastato, si accenna al fatto che “il tasso di crescita del Pil reale nel 2016 probabilmente sarà superiore alla previsione del Governo ferma allo 0,8 per cento”. Per il Tesoro un evidente successo, ma per il resto dell’Europa che cresce ad un ritmo doppio, forse un’ulteriore nota di biasimo.

Quanto a rispondere nel merito, altro che il “sufficiently detailed set” richiesto; ma vaghe assicurazioni. In futuro (quando?) la manovra sarà “approssimativamente” composta per un quarto di tagli di spesa e per il resto da incremento delle entrate. A loro volta i risparmi di spesa deriveranno, all’incirca, per il 90 per cento da una riduzione dei consumi intermedi ed il restante 10 da un taglio dei benefici fiscali. Il tutto da dettagliare nel prossimo Documento di economia e finanza. Che, si badi bene, non ha alcun valore precettivo. Le eventuali indicazioni dovranno essere, infatti, tradotte in decreti legge o altro provvedimento legislativo. Nel frattempo, tuttavia, secondo le indicazioni delle maggiori forze politiche, da Matteo Renzi a Beppe Grillo, passando per Matteo Salvini e Giorgia Meloni, saremo in piena campagna elettorale.

Non sappiamo, ovviamente, quale sarà la faccia di Dombrovskis o di Moscovici nel leggere il documento. Dubitiamo che si sobbarchino all’onere di analizzare l’allegato tecnico, la cui ponderosità (tabelle, grafici equazioni e via dicendo) somiglia più ad un esercizio econometrico, che non al comune format degli scambi diplomatici. Anche perché in quel documento non c’è alcunché di nuovo. Ma solo la riproposizione di temi, che l’Italia ha cercato di far valere nelle varie discussioni sia in sede tecnica che politica. A partire dalla critica alla metodologia, seguita dalla Commissione europea, nel calcolare il deficit strutturale di ciascun Paese, secondo una formula sulla quale l’Italia, per la verità non da sola, non concorda. Sarà, quindi, difficile superare l’impressione che si tenti solo di guadagnare tempo, menando il can per l’aia. Di fronte a scadenze impegnative, quale la definizione della batteria dei dati macro sui quali la stessa Commissione dovrà, poi, formulare le sue eventuali proposte circa una “procedura d’infrazione”.

C’è quindi il rischio concreto che tutto ciò avvenga nel corso di un’infuocata campagna elettorale, che farà pendere ulteriormente la bilancia a favore delle forze anti sistema. Non sappiamo se si sia contato su questo eventuale deterrente. Come l’imminenza del referendum costituzionale aveva spinto la Commissione a rinviare ogni giudizio, pur avendo chiaramente denunciato, sul piano tecnico, uno squilibrio leggermente superiore (5 miliardi), si spera forse che il miracolo possa ripetersi. Staremo a vedere se i margini stretti a disposizione di Bruxelles potranno essere superati da un sublimante atto di “volontà politica”.  Quel che è certo è il diverso atteggiamento dei mercati, il cui cinismo mercantile li porta ad approfittare della debolezza altrui.

Gli spread sui titoli italiani continuano a ballare. Anche nel momento in cui scriviamo, c’è stata una piccola montagna russa: apertura a 186 punti base, quindi leggera caduta di qualche decimale. Ma è dal 26 gennaio, qualche giorno dopo la messa in mora da parte di Bruxelles, che il rialzo è stato continuo e persistente, con un balzo di circa il 17,5 per cento. C’è da preoccuparsi? Forse ancora no, visto che anche gli spread sui bonos spagnoli sono aumentati, nello stesso periodo. Sennonché è anche cresciuto il relativo differenziale, passando dai tradizionali 40 a 60 punti base. Segnale di pericolo. Destinato a trasformarsi in allarme rosso, se la confusa situazione politica italiana dovesse peggiorare. Non dimentichiamo, infatti, che la Spagna, dopo mesi di crisi, ha un suo Governo. Mentre sul futuro Governo italiano pesano le incognite più nere.

Giunti a questo punto viene da chiedersi se non fosse stato più saggio, per la Commissione europea, chiudere un occhio. E non attirare l’attenzione su uno scarto, tutto sommato, modesto. Quello 0,2 per cento del Pil ha quasi una rilevanza esclusivamente statistica. Ed in un Paese, che ha subito quello che ha subito, l’eccezione era forse giustificata. Le sollecitazioni della Commissione vanno, pertanto, lette in chiave prospettica. Gli anni che verranno saranno più duri di quelli passati. Abbiamo retto, seppure malamente, grazie a due circostanze eccezionali che sono in procinto di esaurirsi: il crollo del prezzo del petrolio e la politica di Mario Draghi che ha reso più che accomodante la politica monetaria. Regalandoci tassi di interesse negativi. Se a questo sommiamo gli impegni per il 2018 – una manovra di 20 – 25 miliardi – solo per evitare gli aumenti dell’Iva e delle accise, oltre che la traslazione, voluta da Renzi, di una parte del carico d’imposte sull’anno successivo, non c’è da “stare sereni”. La Commissione ne è consapevole e dice all’Italia: intervenite subito perché, come diceva Lorenzo il Magnifico, del “doman non v’è certezza”.

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