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Vi spiego perché (da liberale) la scissione nel Pd è doverosa e salutare

Lingotto, 5 stelle, molestie

L’unità è stata sempre un mito della sinistra politica. La cui storia reale è stata, quasi a dispetto della mitologia, costellata per lo più da divisioni, scissioni, settarismi.

L’idea di unità traeva impulso da una politica ideologica, militarizzata nelle coscienze, che richiedeva necessario rinserrare le fila e tenere coeso il fronte per far essere più efficace la lotta contro le forze della reazione. La causa non poteva essere tradita, bisognava solo umilmente servirla. Ogni pensiero autonomo che si discostasse dalla linea politica stabilita dai vertici suonava come un “tradimento”: l’unità organica del gruppo doveva essere sempre per principio anteposta a quella libertà di coscienza che veniva etichettata come individualistico particolarismo borghese.

Quel vecchio mito è stato sopraffatto, prima che dall’esplosione delle tragiche contraddizioni della sinistra novecentesca, dall’avvento di un mondo sempre più liquido e basato sulla libertà individuale. I vecchi tempi non sono da rimpiangere, ma qualcosa di essi è sicuramente rimasto nella mentalità comune. La quale, in Italia come forse in nessun altro posto nel mondo occidentale, è stata plasmata da certa political culture progressista.

Non si spiegherebbero altrimenti gli appelli all’unita del Pd che risuonano in questi giorni, persino nei commenti dei giornali ”indipendenti” e “borghesi”. Nessuno dice quel che pure, a mio avviso, logico sarebbe dire: ben venga la scissione se porta un elemento di chiarificazione, soprattutto in universo politico sempre più caotico e contraddittorio quale quello italiano! Ove, per dirne una, non abbiamo, come in Messico, un “partito rivoluzionario istituzionale”, ma, con bizantino spirito ossimorico, si è creato un raggruppamento politico che si è detto dei “conservatori riformisti” (sic!).

Che si faccia o non si faccia, la scissione è nei fatti: si è mai visto non dico un partito, ma un raggruppamento politico, che punta tutto, quasi come sintesi di un triennio di governo, su una riforma elettorale, e che, pubblicamente e platealmente, si trova, in una sua vasta parte, in opposizione a quella stessa riforma sottoposta al voto degli elettori? Un fronte che arriva a brindare per la sconfitta del suo stesso partito?  E’ ora che si tragga finalmente le conseguenze di tutto questo, senza rimpianti e nemmeno richiami a una mistica unitaria che veramente oggi è fuori luogo. Si dice in questi giorni che il proporzionale, verso cui ci riavviamo, è connesso con la frammentazione dell’offerta politica. Non ne sono sicuro: dopotutto la vecchia DC, che operava in contesto proporzionale, racchiudeva molte e diverse anime al suo interno. Che però si ritrovavano nella comune radice cattolica e nella necessità di sbarrare la strada del potere centrale al più forte e organizzato partito comunista dell’Occidente.

Quello che però so di certo è che i commentatori sbagliano ancora una volta quando dicono che la guerra in atto nel Pd sia soprattutto di poltrone e potere, pertanto ricomponibile. La scissione può essere rimandata, ma è nei fatti. E’ una divisione profonda, di valori: spezzando le “catene della sinistra”, Renzi ha rotto non solo con la vecchia tradizione comunista ma anche con quella welfaristica e socialdemocratica (e non inganni la sua decisione di aderire al gruppo socialista europeo). Almeno da un punto di vista ideale.

Un liberale non può che essere contento di questa rivoluzione operata da Renzi nel corpo stesso del vecchio partito. In questo contesto, la convergenza al centro con le forze moderate che un tempo si riconobbero (insieme ad altre e opposte anime) nell’universo berlusconiano, non può essere ridotta a una scelta tattica. Essa è invece la naturale conseguenza di un certo modo (riformistico) di fare politica, ovvero di governare con responsabilità i cambiamenti in corso nelle nostra società.

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