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Airbnb e Uber. Ecco come il Pd vuole aggredire l’elusione fiscale della sharing economy

Non è facile ma è arrivato il momento di dare regole chiare alla sharing economy. L’economia della condivisione infatti promuove nuove forme di consumo tra gli utenti, di certo più convenienti di quelle tradizionali, e ridisegna interi segmenti di mercato, dall’utilizzo condiviso delle automobili alle locazioni immobiliari. Per questo il Partito democratico ha messo in campo una proposta contenuta alla Camera nel disegno di legge presentato dalla deputata Veronica Tentori, e al Senato per iniziativa di Mauro Del Barba (nella foto), e altri 25 senatori dem.

Il nostro Paese è certamente in ritardo, basta pensare che questo fenomeno che ha rivoluzionato il nostro modo di consumare è stato identificato dal Time addirittura nel marzo 2011 “come una delle 10 idee che avrebbero cambiato il mondo”. In ritardo perché vi è un vero e proprio muro contro questa nuova economia perché tocca gli interessi di aziende e colossi del commercio. E non è solo una guerra tra Uber e tassisti, o la francese Blablacar che dopo alcuni anni in Italia a zero ricavi, ora prenderà una commissione sulle tratte dei “passaggi in auto condivisi”.

Basta pensare, ad esempio, al comparto turistico: solo in Italia il 15% delle piattaforme collaborative esistenti riguarda proprio questo settore. Sul piede di guerra ci sono le agenzie di viaggio e anche i big del settore alberghiero. Emblematico è il caso di Airbnb, piattaforma statunitense che permette lo scambio di alloggi a fini turistici tra privati, che in pochissimi anni ha conosciuto una crescita esponenziale, arrivando a contare più di 2 milioni di annunci e 60 milioni di viaggiatori, divenendo uno dei principali competitor internazionali nel campo dell’accoglienza. E anche qui le critiche delle associazioni di categoria non sono mancate, come ad esempio la denuncia di una mancanza di sicurezza per i clienti e una forte evasione fiscale. Una su tutte quella di Federalberghi. In base ai dati diffusi, ad agosto 2016 Airbnb poneva in vendita in Italia 222.786 strutture (erano solo 234 nel 2009), di cui 23.889 a Roma e 13.200 a Milano. Una platea sterminata, al crescere della quale però – ha sottolineato Bernabò Bocca presidente dell’associazione degli albergatori – non corrisponde “una significativa variazione del numero di attività ufficialmente autorizzate”.

Per non parlare della rivolta che c’è stata sull’attività di ristorazione in abitazione privata, fenomeno conosciuto come home restaurant, ovvero la possibilità di organizzare cene, prenotabili sul web, all’interno di abitazioni private che ha visto una vera e propria sollevazione da parte della Confcommercio (“è un attentato alla salute”) che faticosamente si sta cercando di normare con diversi paletti, come il fatto che ogni attività può usufruire di un massimo di 500 coperti all’anno, per una media di poco più di un coperto al giorno. Il limite economico, inoltre, è fissato a 5mila euro lorde per le somme conferite dagli ospiti.

Analizzando la proposta del Pd alla Camera dei deputati, che è già in fase di discussione avanzata presso le Commissioni attività produttive e trasporti, si capisce che l’obiettivo è proprio questo: dare un perimetro ai soggetti che scelgono la sharing economy che, attraverso le piattaforme digitali, svolgono un’attività occasionale, in genere per integrare il proprio reddito. Nei 12 articoli di cui dispone il disegno di legge, ricorrono spesso i termini di equità e trasparenza tra chi opera nella sharing economy e gli operatori economici tradizionali e di tutelare i consumatori, in particolare per quanto riguarda gli aspetti legati alla sicurezza, alla salute, alla privacy e alla trasparenza sulle condizioni che stanno alla base del servizio o del bene utilizzato.

Un fenomeno che “non può essere arrestato” scrivono gli 84 deputati “ma deve essere governato” anche perché si potrebbero così “recuperare in Italia circa 450 milioni di euro di Pil di base imponibile, attualmente oggetto di elusione fiscale, corrispondenti a non meno di 150 milioni di euro di maggiore gettito per l’erario, tra imposte dirette e indirette”. Tutto questo perché entro il 2025 si stimano crescite di oltre 20 volte la stima “portando così il nuovo gettito a circa 3 miliardi di euro”.

Per il Pd un ruolo-chiave deve essere svolto dall’Antitrust che deve regolare e vigilare sulle attività delle piattaforme digitali, specificandone le competenze e istituisce un Registro elettronico nazionale di questi nuovi strumenti online, che devono rendere tracciabili le operazioni di pagamento. E proprio questo è il punto focale del provvedimento. I parlamentari individuano una soglia, 10mila euro annui, in base alla quale si divide chi fa questo tipo di attività come “amatoriale” e chi invece è un professionista del settore. Per i primi si propone un’aliquota fissa del 10% su tutte le transazioni, nell’altro caso la somma eccedente si cumula con gli altri redditi percepiti dall’utente e conseguentemente è applicata la rispettiva aliquota fiscale. Sono previsti anche controlli e sanzioni (articolo 10 del ddl) con l’Agcom che è chiamato a intervenire dove riscontri l’attività di una piattaforma digitale non iscritta nel Registro, diffidando il gestore a sospendere tempestivamente l’attività, fino al perfezionamento dell’iscrizione e con una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 25% del fatturato nel periodo considerato “fuori legge”.

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