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Gli Stati Uniti sono in grado di contenere la minaccia nucleare nordcoreana?

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Secondo un’inchiesta del New York Times la minaccia nucleare della Corea del Nord è un problema enorme su cui gli Stati Uniti non hanno ancora una chiara strategia di contrasto. L’inchiesta è iniziata la scorsa primavera, il giornale non ha rivelato risultati dettagliati su richiesta dell’ufficio della National Intelligence per non facilitare Pyongyang.

Finora le contromisure si sono limitate a un’intensa attività di cyber-war, attacchi informatici che hanno rallentato il processo di produzione dell’atomica nordcoreano sabotando server in cui erano contenuti programmi, studi e progetti (qualcosa di simile agli attacchi con il virus Stuxnet fatti contro le centrifughe iraniane nel 2009). Ma questo, secondo le analisi fatte dal Nyt, e le testimonianze raccolte dai giornalisti David Sanger e William Broad che firmano il pezzo, divide i funzionari della difesa americani, perché c’è un gruppo di scettici che ritiene le azioni insufficienti. Certe valutazioni si inquadrano in un momento particolarmente sensibile: il presidente americano Donald Trump, anche per dimostrare vicinanza agli alleati regionali come il Giappone e creare un contrasto proxy contro potenziali nemici sistemici come la Cina (che fa da scudo diplomatico alla Corea del Nord), ha intensificato la retorica contro la minaccia del “folle” leader Kim Jong Un, al punto che due giorni fa il Wall Street Journal è uscito con un articolo informato in cui si parlava di un piano in studio tra gli uffici dell’amministrazione che prevede misure più aggressive fino alla possibilità dell’azione militare per favorire il regime change a Pyongyang.

Barack Obama aveva già aumentato le azioni hacker contro il Nord a inizio 2014, pensando anche sistemi di deviazione “dopo il lancio”, ma questo non aveva scoraggiato Kim, che ha ordinato di effettuare vari test missilistici negli anni successivi. Ora il problema si ripropone, anche perché le prove fatte sui missili intercettori americani avevano avuto un tasso di fallimento del 56 per cento, e i giornalisti del Nyt aggiungono che in forma anonima i funzionari hanno rivelato che sotto la tensione della fase operativa quella percentuale potrebbe essere anche più alta. Il cyber warfare è un tra l’altro un terreno di contrasto comune: la Corea del Nord con l’attacco contro Sony del 2014 ha dimostrato le proprie capacità, sottolineate anche in un rapporto sulle vulnerabilità cyber americane redatto dal Defense Science Board e uscito il 28 febbraio: Kim potrebbe avere in mano la capacità di mettere fuori uso la rete elettrica statunitense.

Non più tardi di martedì, scrive il Nyt, c’è stata una riunione riservata tra i massimi livelli della Sicurezza nazionale americana tenuta nella Situation Room della Casa Bianca: in discussione le varie opzioni di contenimento. Dalla possibilità di aumentare gli attacchi cibernetici, a quella di colpire con missili balistici i siti di lancio nordcoreani; oppure la via diplomatica, aprire negoziati diretti con Pyongyang per chiedere la revisione del programma atomico, o fare pressing sulla Cina in tal senso.

Gli ultimi due aspetti altrettanto complicati quanto il contrasto militare. Venerdì Foreign Policy ha pubblicato in anteprima un rapporto dell’ONU, che dovrebbe essere reso pubblico entro pochi giorni, in cui si dimostra che dietro al sostentamento economico della Corea del Nord, uno stato apparentemente isolato dal punto di vista delle relazioni diplomatiche e colpito da una fitta serie di sanzioni, c’è una rete coperta di società di comodo che permettono a Pyongyang buoni introiti da esportazioni di oro, carbone (le cui importazioni in Cina sono state recentemente tagliate in via ufficiale), minerarie. Ma anche commerci di componenti per missili (i datiti Scud sovietici) e altri sistemi militari: le società hanno sede in Angola, Malaysia, isole dei Caraibi, Indonesia; i nordcoreani acquistano pezzi di scarso valore e li rielaborano per venderli in aree di conflitto in cui si sorvola sugli aspetti diplomatici delle violazioni delle sanzioni. Inoltre Pechino permetterebbe a istituti di credito nordcoreani messi sotto sanzioni di continuare a le proprie attività in alcune città cinesi. Tutti soldi che rientrano al Nord e permettono di finanziare le attività del regime.

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