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Perché anche su Ilva si gioca il rilancio dell’Italia

sindacato, ilva solidale Metalmeccanici

L’articolo d’apertura di “Fabbrica società” il giornale della Uilm che sarà on line il 14 marzo 

Lo abbiamo detto, scritto e ripetuto più volte: l’economia può riprendersi solo se si investe con oculatezza in ambito industriale, attraverso scelte mirate rivolte in particolar modo verso il settore manifatturiero. Insomma, ci vogliono investimenti pubblici e privati indirizzati alle infrastrutture immateriali e materiali di questo Paese. Occorre che gli investimenti riguardino le aziende interessate e le filiere produttive correlate e che si basino su politiche di sviluppo, innovazione, modernità.

Tutto questo, in una parola sola, significa politica industriale che in Italia è stata applicata a “spizzichi e bocconi” senza un vero progetto continuativo, coerente, unitario ed efficace. E’ giunto il momento di sciogliere uno dei nodi che lega la crescita economica. Se l’industria ed il settore manifatturiero sono l’anima di una possibile ripresa economica il cuore propulsivo del rilancio è la siderurgia necessaria alla produzione di acciaio di alto livello. In Italia tale fabbisogno, con ricadute importanti a livello internazionale, è stato assicurato negli ultimi trent’anni dal gruppo Ilva che ora si appresta ad essere acquisito da un nuovo “management”, dopo le traversie che hanno caratterizzato la vecchia proprietà e a seguito di una fase commissariale da parte del governo tuttora in vigore. Da questo evento molto può determinarsi per le sorti dell’economia nazionale che cresce, ma in maniera nettamente inferiore rispetto agli altri Paesi del vecchio continente.

Ci sono due offerte per l’Ilva provenienti da parti diverse. La cordata di Arcelor Mittal (con dentro la famiglia Marcegaglia al 15% del capitale) punta a far sì che il gruppo siderurgico italiana diventi parte di una vera e propria realtà multinazionale del settore specifico: economie di scala rilevanti, alta scuola manageriale, ma anche decisioni che possono essere prese al di fuori dei confini nazionali. La cordata di Cdp, Arvedi, Del Vecchio e degli indiani di Jindal, invece, punta sulla tecnologia del gas e del preridotto, con lo scopo di combinare insieme l’attività tradizionale con attività che hanno segmenti di mercato diversi.

Quindi, le due diverse proposte rappresentano una oggettiva opportunità per la produzione dell’acciaio in Italia e per il mantenimento dei livelli occupazionali riguardanti addetti diretti e quelli dell’indotto, concentrati soprattutto a Taranto. Il fatto che nel pomeriggio del 6 marzo siano state presentate le due offerte vincolanti per gli assett di Ilva è una nota lieta.

Siamo in presenza di due proposte autorevoli: quella da parte della joint venture di Am Investco guidata dai gruppi di Arcelor e Mittal (società del Lussemburgo e dei Paesi Bassi); e quella del consorzio di AcciaItalia in cui risalta la presenza degli indiani di Jsw. La prima cordata ha dichiarato di voler produrre quasi dieci milioni di tonnellate di prodotti finiti (tra produzione primaria e semilavorati da laminare) su base annua. Inoltre, Am Investco ha annunciato di voler investire, oltre al prezzo di acquisto, circa 2,3 miliardi di euro, volendo anche espandersi nel settore automobilistico, energetico ed edilizio e volendo spendere almeno dieci milioni di euro per la creazione di un centro di sviluppo e ricerca a Taranto.

AcciaItalia, invece, ha già fatto sapere di voler portare la produzione annuale di acciaio a 10 milioni di tonnellate l’anno, mantenendo l’attuale produzione da altoforno e realizzando forni elettrici alimentati da preridotto. Qualunque opzione prevarrà alla fine tra quelle presentate dai due contendenti, di certo la siderurgia italiana inizierà ad uscire dal vicolo cieco in cui si era infilata. Occorre tener presente che uno dei problemi che caratterizza il settore della siderurgia è quello della sovraccapacità produttiva.

Il contesto non lascia spazio a dubbi. Nel 2015 la capacità produttiva nominale mondiale ha raggiunto 2,362 milioni di tonnellate, con un aumento del 126% rispetto ai livelli del 2000. Il 72% a fine anno era situato nelle economie non Ocse. Dal 2008 la domanda globale di acciaio continua a diminuire mentre la capacità produttiva ha continuato a crescere. La massa di nuovi investimenti, prevalentemente in Asia e in misura meno intensa nel Medio Oriente, in Russia e America Latina, indica che entro il 2018 la capacità produttiva arriverà a quota 2.410 milioni di tonnellate. “Per assorbire tutte le nuove capacità in costruzione e programmate il consumo mondiale dovrebbe aumentare del 6,3% fra quest’anno e il 2018 compreso, ma già oggi – indica un rapporto Ocse presentato nel mese di aprile scorso a Bruxelles – i mercati globali dell’acciaio sono deboli e le prospettive di crescita fiacche”.

Ciò creerà condizioni “molto difficili” alle imprese soffocate proprio dalla stretta della sovraccapacità produttiva, dei bassi prezzi e della continua contrazione della produzione in tutte le aree del mondo. Rispetto a questo stato di cose è bene sottolineare, in merito alle scelte che potrebbero porre in essere i potenziali compratori del gruppo siderurgico in questione, che il trasferimento dei complessi aziendali di Ilva possa non può avvenire in modo frazionato a più acquirenti. Come stanno le cose qualunque proposta delle due cordate che dovesse prevalere assicurerebbe la continuità e integrità del ciclo produttivo articolato nei diversi siti italiani. Infatti, l’attuale assetto dell’Ilva è stato concepito proprio per assicurare la continuità produttiva attraverso la sinergia fra i vari siti collegati allo stabilimento di Taranto, in particolare con quelli di Genova e Novi Ligure. Propria da come si determinerà la ripartenza del gruppo siderurgico in questione, riusciremo anche a comprendere le potenzialità di riuscita per l’equilibrio economico e la coesione sociale dell’Italia. Da come va a finire la vicenda Ilva si capisce davvero se è possibile il rilancio del lavoro industriale qui da noi.

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