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Come e perché i Balcani sono una palestra per il radicalismo terroristico

La politica italiana, a causa dell’emergenza immigrazione, guarda in direzione della Libia nella perenne speranza di una soluzione e non si accorge che anche dall’altro lato c’è una situazione potenzialmente esplosiva e sottovalutata: i Balcani. Base logistica per terroristi, brodo di coltura per radicalizzazioni, terra di tensioni etniche mai sopite, l’altra sponda dell’Adriatico è un problema che grava sull’Europa e sull’Italia analizzato in dettaglio nel convegno organizzato dalla delegazione italiana presso l’assemblea parlamentare della Nato e dal Centro studi internazionali (Cesi) il cui presidente, Andrea Margelletti (in foto), ne è stato il moderatore.

LA STRATEGIA DELL’ARABIA SAUDITA

Quasi tutti i relatori hanno sottolineato la strategia dell’Arabia Saudita e di Paesi del Golfo nell’indottrinamento di giovani slavi avviati a essere imam e sul ruolo di certe Ong. Dragan Simeunovic, direttore dell’Accademia di sicurezza nazionale di Belgrado, ha spiegato che organizzazioni umanitarie legate a determinati Paesi “sono sospettate di connessioni con il terrorismo e impegnate a diffondere il wahabismo salafita”. Inoltre, “siti web non soltanto diffondono idee radicali in più lingue, ma coordinano anche l’attività degli estremisti”. La sua conclusione è preoccupante: l’aumento dell’estremismo porterà a “un’escalation nel conflitto regionale, con incidenti in Macedonia e nella Serbia meridionale”. Alla domanda se il salafismo sia intrinsecamente radicale, Sead Turcalo, ricercatore della facoltà di Scienze politiche dell’università di Belgrado, ha risposto con il fatto che “il salafismo recluta i foreign fighters introducendo ulteriori divisioni in una comunità serba in cui si contano già almeno 3 mila militanti salafiti non moderati” e ha aggiunto che molti giovani vanno a studiare in Arabia Saudita, il cui governo offre borse di studio, per poi tornare in Serbia come predicatori. “Si punta a staccarli dalle famiglie – ha detto Turcalo – e a quel punto il percorso di radicalizzazione è cosa fatta”.

GLI ERRORI DELL’UE

Il Kosovo e l’Albania hanno problemi simili. Florian Qehaja, direttore del Kosovar Centre for Security Studies, ha confermato che imam conservatori tornano dopo aver studiato presso i sauditi e che solo uno sviluppo economico di Macedonia e Kosovo potrà frenare il radicalismo perché “avremmo più cose da offrire ai giovani”. Gerta Zaimi, ricercatrice presso il Centro per gli studi strategici imprenditoriali e internazionali dell’università di Firenze, ha spiegato che in Albania, Macedonia e Kosovo su 2.200 moschee solo poche decine sarebbero fuori controllo secondo le autorità locali, ma in realtà sono di più. In particolare, “il rischio per gli albanesi è pensare che l’Islam impedisca loro di essere pienamente accettati in Europa e che gli estremisti approfittino di questa frustrazione”. L’Ue non ha pienamente capito il rischio-Balcani: “Non sono considerati una priorità, ma una realtà remota – ha detto Roberta Bonazzi, presidente della European Foundation for Democracy di Bruxelles – tanto che i programmi finanziati contro il radicalismo sono privi di indicatori concreti”. Cioè l’Europa spende, ma lo fa male.

LE INDAGINI E I RISCHI DEL KOSOVO

E l’Italia? Non era un caso che nella platea ci fossero diversi investigatori delle forze dell’ordine e dell’intelligence perché la prevenzione resta determinante e i servizi segreti da qualche anno cercano di attirare l’attenzione sui Balcani. Il generale Giuseppe Governale, comandante del Ros dei Carabinieri, anticipando che presto l’Arma farà indagini sotto copertura negli ambienti jihadisti, ha ricordato un caso esemplare di “sicurezza partecipata” come l’ha chiamata Margelletti: leggendo il compito di un bambino, un’insegnante di scuola media in provincia di Padova ha avvertito il dirigente scolastico e questi i Carabinieri della stazione, facendo emergere un processo di radicalizzazione in quella famiglia. Inoltre, un pezzo importante d’Italia è da anni nel cuore del Kosovo, nella missione Kfor della Nato oggi comandata dal generale Giovanni Fungo che non ha usato giri di parole: “Il Kosovo è zona di reclutamento e un rischio assoluto per l’Europa, i finanziamenti che arrivano dai Paesi del Golfo servono a individuare giovani già semiradicalizzati e a portarli in Arabia Saudita per cinque anni. Quando tornano a casa, saranno loro a scegliere gli altri giovani: una strategia precisa programmata per il futuro”. Se questo è il quadro, si capisce che Fungo abbia aggiunto: “Non mi fa dormire il fatto che nel primo semestre del 2017 saranno rilasciati 50 foreign fighters oggi in carcere senza che nessuno sappia se si sono deradicalizzati”. Se i Balcani sono al centro di grandi traffici d’armi, solo in Kosovo si stima che siano 150 mila le armi da guerra reperibili, tanto che la polizia kosovara in normali controlli ne trova da 50 a 70 ogni settimana: “Potrei mandare i miei uomini disarmati e troverebbero le armi per strada” ha ironizzato il generale.

IL RUOLO DELL’ITALIA

Andrea Manciulli, presidente della delegazione italiana presso l’assemblea parlamentare della Nato, ha insistito sul ruolo dell’Italia e sul programma di deradicalizzazione che la Camera dovrebbe approvare tra breve sulla base di una proposta di legge sua e di Stefano Dambruoso. “L’Italia può svolgere un ruolo centrale, in sede istituzionale e politica, anche grazie al vertice sui Balcani che si terrà prossimamente nel nostro Paese, per favorire l’avvicinamento dei Paesi balcanici all’Europa, per promuovere la stabilizzazione e la sicurezza dell’area” che secondo Manciulli “può rappresentare una piattaforma logistica per le organizzazioni terroristiche che intendono operare in Europa”. La “teoria degli spazi vuoti” è quella che Manciulli spiega a ogni occasione (e che probabilmente citerà nella relazione alla prossima assemblea della Nato a Sarajevo): c’è il vuoto geopolitico degli Stati in conflitto o in dissoluzione, come Yemen, Libia, Sudan, area del Sahel, e il vuoto derivante da “una frattura socio-economica che apre delle crepe nell’Occidente più strutturato”, crepe nelle quali si insinua il radicalismo. Quando ci sono degli arresti in Italia si esprime soddisfazione sul momento, ma la politica non li analizza mentre in quasi tutte le indagini degli ultimi anni in Italia sono emerse “chiare origini balcaniche”. La legge sulla deradicalizzazione “è stata suggerita dagli investigatori” ha detto ancora Manciulli. È vero, cominciarono a parlarne tre anni fa, soprattutto dopo l’esplosione dell’Isis, e solo pochi giornali ne hanno parlato. Ci sono voluti tre anni perché la politica, a fatica, lo capisse.

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