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Pier Luigi Bersani e la sindrome di Stoccolma

Pier Luigi Bersani

Pier Luigi Bersani non me ne voglia, ma la sua testardaggine resta per me un mistero. Lasciamo stare la sua dichiarata disponibilità a un confronto in streaming con Beppe Grillo. Ma sostenere che il M5s è la forza di centro dei tempi moderni; che esso costituisce un argine alla deriva nazionalista; e che, se alle prossime elezioni si indebolisse, arriverebbe una “robaccia” di destra, mi ricorda Ennio Flaiano quando diceva che c’è sempre qualcuno pronto ad alzare l’asticella del ridicolo. Ma qui siamo addirittura oltre. Infatti, un movimento conservatore di massa (che lo sia, se ne compiace perfino un sedicente populista doc, l’insospettabile Michel Houllebecq) nel Bersani-pensiero diventa addirittura l’architrave di un inedito centrosinistra, il potenziale alleato di un neopartito che ha come sua ragione sociale il riferimento al primo articolo della Costituzione (antitetico alla filosofia del reddito di cittadinanza, della decrescita felice, della sovranità popolare che si esprime in forma delegata). Non so se ridere o piangere. Che cosa si possa vedere di buono, da un punto di vista democratico, in un pirotecnico personaggio per il quale “l’articolo 67 della Costituzione consente la libertà più assoluta ai parlamentari che possono fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare”, a me francamente sfugge (a meno che non si sia affetti da una specie di sindrome di Stoccolma).

Chissà, può darsi che anche Bersani, un tempo incarnazione del buon senso contadino con le sue mirabolanti metafore agresti, si sia convertito all’utopismo tecnologico naïf della Casaleggio & Associati. Un modello in cui la fine della politica prelude a un radioso futuro comunitario, nel quale tutti i partiti sono destinati a sparire. Ma, poiché questo futuro non è dietro l’angolo, occorre passare per una fase di transizione che esige, come nella vulgata marxista-leninista della dittatura del proletariato, ferrea disciplina interna e, appunto, mandato imperativo nelle istituzioni. Mi stupisco, pertanto, quando qualcuno ancora si stupisce dei metodi staliniani adottati dal capo nei confronti di qualche malcapitato cliccatore della Rete, reo soltanto di credere ingenuamente alla favoletta dell’uno vale uno.

È questa la cultura politica, traboccante di risentimento contro la “casta” e di sfiducia nella scienza, di una forza di centro? Ognuno ha il diritto di essere masochista. Se Bersani vuole incontrare il comico genovese per farsi ripetere in diretta televisiva (come ripete ogni giorno sul suo “non blog”) che i Cinquestelle siedono in Parlamento per smascherare i malfattori e non per governare insieme agli “altri”, si accomodi pure. Se poi, oltre che sulle enunciazioni di principio, gettasse uno sguardo sulla gestione del movimento, non dovrebbe fare fatica ad accorgersi che l’incessante appello agli elettori e ai discepoli del web contro l’indipendenza dei rappresentanti nelle istituzioni è incompatibile con qualsiasi ipotesi di dialogo. Bersani obietterebbe, spalleggiato da Enrico Letta, che gli elettori del M5s sono tanti, e che con loro bisogna parlare. Certo: con gli elettori bisogna sempre parlare, magari per convincerli con programmi e idee migliori a cambiare cavallo. E poi anche gli elettori della Lega e di Forza Italia sono tanti, ma non mi risulta che Bersani arda dal desiderio di incontrare Matteo Salvini o Silvio Berlusconi.

In conclusione, occorrerebbe chiedersi perché le pulsioni di tipo plebiscitario dei pentastellati sono considerate con simpatia crescente in taluni ambienti politici e intellettuali della sinistra radicale. Sonno della ragione, puro abbaglio teorico, semplice sintomo di quel clima sempre più ostile al renzismo in cui si è consumato il fallimento della riforma costituzionale e il ripudio del maggioritario? Confesso di non avere risposte certe. Forse non resta che sperare in congiunzioni astrali più benigne per le sorti del riformismo italiano.

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