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Femminicidio, non basta la parola

Marco Ferrazzoli

Non voglio apparire provocatorio, ma la parola femminicidio non mi piace, perché diffido di quelli che Giuseppe Antonelli sul Corriere della sera ha chiamato “emologismi”, cioè parole dal grande impatto mediatico, dal successo troppo rapido, diffuso e indifferenziato, come lo “chef” che ha sostituito il cuoco o lo “stilista” che ha preso il posto del sarto, per non dire del meteorico “petaloso”. A mio avviso, invece, un problema così importante e grave richiede un’attenzione e una partecipazione diverse dal consenso spontaneo, istintivo, tipico dei social network: quello con cui, per esempio, la foto del cuore con le dita postata su Facebook da Gessica Notaro, sfregiata con l’acido dall’ex compagno Jorge Edison Tavares, ha ottenuto oltre duemila “mi piace” in meno di 24 ore.

Per difendere le donne non basta una parola. Credo serva meno pancia e più testa, poiché il rispetto della donna, la difesa del suo corpo, la piena dignità e parità tra i due sessi sono un perno della nostra civiltà e un valore molto costosi e faticosi da mettere in pratica.

La violenza contro le donne si iscrive in un fenomeno ampio: l’abuso della forza fisica come strumento “naturale” di prevaricazione verso i nostri simili. La natura non è buona e soprattutto non è giusta, come ovviamente non è cattiva né ingiusta: per questo gli esseri umani, per compensarla, fanno ricorso agli strumenti culturali come il diritto. Ma un obiettivo del nostro sistema giuridico come la riabilitazione (fondamentale e anzi da perseguire con maggior tenacia, rivedendo l’attuale impianto carcerario, obsoleto e controproducente) appare spesso, nel caso dei reati di violenza di genere, in conflitto con l’esigenza risarcitoria della pena. Pensiamo a Chiara Insidioso, ridotta in coma da Maurizio Falcioni a calci in testa inferti con gli scarponi da cantiere: possiamo dire al padre di Chiara, che da allora deve accudirla costantemente, che verso questo “signore” dobbiamo porci l’obiettivo del recupero? E che dire dell’uxoricida confesso Giulio Cesare Morrone, che non ha scontato un giorno di carcere poiché il suo reato è andato prescritto? Dei nove anni nei quali l’iter processuale per lo stupro di una bambina ripetutamente violentata è rimasto fermo in corte d’Appello? Ma anche dei due rom che hanno provocato la morte di Zhang Yao durante uno scippo, condannati a due anni di carcere, uno dei quali è stato anche rimesso in libertà? Oppure del rito abbreviato che ha consentito a Manuel Foffo, uno dei feroci assassini di Luca Varani, di evitare l’ergastolo? In casi come questi, in cui la garanzia concessa ai rei appare una sorta di reiterazione della violenza subita dalle vittime, come si può non condividere e accogliere la rabbia delle famiglie?

E se accettiamo il principio che la giustizia serve a difendere i più deboli, come la mettiamo con i diritti dei bambini, così spesso subordinati a quelli accampati dagli adulti? Pensiamo alla stepchild adoption e alla maternità surrogata, a proposito di eufemismi con i quali traduciamo espressioni più dure quali “utero in affitto”: davvero, come ha chiesto il cardinale Angelo Bagnasco,  il desiderio di una coppia di avere figli pur non potendoli concepire è un diritto? Una riflessione preventiva appare inoltre opportuna, in una società multiculturale come la nostra, sul rischio che l’allargamento dei diritti “famigliari”, basato sul principio della libera convivenza tra adulti consenzienti, possa un giorno portare a richieste di legalizzazione della poligamia.

Naturalmente, il nodo più intricato è proprio la difficoltà di conciliare i principi dell’accoglienza e dell’integrazione e la convivenza con persone provenienti da parti del mondo nelle quali la dignità femminile è totalmente disconosciuta. Senza andare troppo in là nella cronaca, limitiamoci a ricordare i dati del ministero dell’Istruzione  secondo cui, in Italia, sette ragazze islamiche 15-29enni su dieci sono escluse sia dalla formazione sia dal lavoro. Oppure alla denuncia delle adolescenti schiavizzate nei campi rom. Ma anche all’utilizzo dei bambini come forza lavoro da parte della comunità cinese residente nel nostro paese. Temi accolti da opinione pubblica, istituzioni e media con un’indifferenza che fa il paio con quella con la quale, allargando lo sguardo all’estero, assistiamo alla preoccupante recrudescenza dei comportamenti discriminatori verso le donne in paesi quali India, Iran, Turchia, Libia…

Come tanti altri problemi, anche la violenza contro i più deboli e in particolare contro le donne andrebbe sottratta all’ideologizzazione che distorce e condiziona la nostra indignazione. Riflettiamo su come gli attacchi contro moglie e figlio di Donald Trump non provochino, data la scarsissima popolarità del nuovo presidente statunitense, reazioni pari a quelle che si registrano in altri casi analoghi. O alla condiscendenza ancora di recente ribadita senza riserve da intellettuali ed esponenti pubblici quale Marco Bellocchio verso il grande regista Roman Polanski, accusato ma mai processato per lo stupro di una 13enne con la quale ammise di avere rapporti sessuali.

Come altri problemi, quello della violenza contro le donne va affrontato con concretezza e la convinzione necessarie a risolverlo. Lo stillicidio delle notizie quotidiane potrebbe portarci a ritenere che si tratti di una piaga sociale cronica, mentre invece le società cambiano. E talvolta migliorano. La Camera, per esempio, ha finalmente licenziato il testo della legge che concederà agli orfani di femminicidio l’esenzione dalle spese legali.

L’articolo è liberamente ispirato al saggio “Femminicidio: non basta la parola”, pubblicato nella collettanea “Succo di melograno” a cura di Ezio Alessio Gensini e Leonardo Santoli: il volume è scaricabile gratuitamente e verrà presentato il prossimo 8 marzo alle 17,30 a San Piero a Sieve (Firenze).

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