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Cosa penso di Alessandro Profumo in Leonardo/Finmeccanica dopo Mps e Unicredit

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La Borsa ha festeggiato la nomina di Alessandro Profumo a capo azienda di Leonardo – la vecchia Finmeccanica – con una caduta del 6 per cento, in due giorni. Nello stesso periodo l’indice MIB ha perso meno dello 0,1 per cento. C’è quindi qualcosa che non va nel sentiment del mercato. Tanto più che prima di conoscere il nome del prescelto, lo stesso titolo aveva conosciuto un rialzo dell’1 per cento. Che cos’è che, almeno per ora, non ha funzionato? Delusione? Risentimento? Rammarico per il caso Moretti? Costretto a lasciare il suo posto, sulla base di una sentenza di condanna in primo grado per il disastro di Viareggio. Come se fosse stato colpa sua, ma su questo non possiamo che far nostre le considerazioni di Giuliano Cazzola proprio su Formiche.net. Il cui operato, aggiungiamo subito, aveva portato il valore del titolo da 7,3 euro (gennaio 2015) a 13,9. Niente male.

Che cos’è che non va? Secondo i rumor di borsa un banchiere non sembrerebbe la scelta migliore, per un’azienda che si caratterizza per un elevatissimo standard tecnico di produzione: forniture militari ed alta qualificazione tecnologica. Meglio sarebbe stato un ingegnere – dirigente d’impresa. Com’era appunto Mauro Moretti. Ma forse c’è qualcosa di più. Nella sua lunga carriera, Profumo ha maturato una notevole esperienza internazionale. Cosa che, al contrario, dovrebbe aiutarlo anche in questa impresa. Sennonché le scelte di allora, in qualità di capo dell’Unicredit, non sempre sono state apprezzate. Gli hanno rimproverato, ad esempio, un’eccessiva facilità nell’acquisizione di banche nei territori degli ex Paesi comunisti. Come ad esempio la presa in carica del 59 per cento della polacca Bank Pekao SA o l’acquisizione della tedesca Hvb, qualche anno dopo. Operazioni che furono contestate in sede europea, da parte della Commissione, ed alle quali si dovette in qualche modo rimediare con scelte successive.

Nel frattempo, tuttavia, le esigenze finanziarie da parte della Banca, anche a causa di queste operazioni, divenivano pressanti. Ed allora non c’era altro rimedio che ricorrere a continui aumenti di capitali, in un mercato, come quello italiano, che non gradiva molto simili interventi. Un primo aumento di capitale, per un valore di circa 3 miliardi, fu varato nel 2008. Ed uno ancora più sostanzioso (4 miliardi) nel 2010. L’anno che segnò la fine della lunga carriera di Profumo presso l’Istituto. I contrasti, all’interno del CdA, erano presto divenuti incandescenti. Gli si rimproverava di non aver comunicato al Consiglio che i libici erano divenuti i primi azionisti della Banca, con una quota pari a circa l’8 per cento del capitale.

Non fu un addio doloroso. Con una liquidazione pari a 38 milioni, Alessandro Profumo batté tutti i record. Facendo impallidire Matteo Arpe (30 milioni), Cesare Geronzi (20 milioni) e Roberto Colaninno (17 milioni). Solo Wendelin Wiedeking, capo della Porche, aveva fatto meglio, ottenendo un compenso di 50 milioni. Si deve solo aggiungere che quei compensi furono elargiti nel 2010, quando il fallimento della Lehman Brothers aveva dimostrato che un’epoca, quella dei “banchieri – dio”,  era ormai al tramonto. Ed il loro lascito, o meglio il loro strascico, sarebbe di nuovo ricascato sulle finanze pubbliche. Del resto, ancora oggi, Unicredit, è stata costretta ad un maxi-aumento di capitale di 13 miliardi, ed alla dismissione di gioielli di famiglia, come la Pioneer, che gestisce una buona fetta del risparmio italiano, alla francese Amundi.

La Stampa di Torino, commentando le nomine, ha titolato “seconda vita di Alessandro Profumo, da banchiere a boiardo di Stato”. Per la verità sarebbe stato più corretto parlare di una “terza vita”. A differenza di Matteo Arpe, che si è buttato nel privato, l’ex Unicredit, dopo la sua fuoriuscita, ha fatto un giro come presidente di Mps. Anche in questo caso, una vita tutt’altro che tranquilla. Sotto i riflettori in particolare l’operazione Nomura: i derivati sottoscritti con la Deutsche Bank per dare un po’ d’ossigeno all’Istituto senese. Una respirazione bocca a bocca che non ha impedite il successivo disastro. Concretizzatosi nel definitivo intervento dello Stato, con uno stanziamento di 20 miliardi. Anche in questo caso non erano mancati aumenti di capitale, per circa 8 miliardi, che si sono risolti in un totale disastro ai danni dei sottoscrittori.

Al di là di ogni considerazione sulla professionalità del banchiere, resta comunque quel dato da cui è difficile prescindere. Si parla tanto di “casta” a proposito dei politici. Ci si accapiglia su un vitalizio, che al termine della legislatura, potrà fornire una rendita netta di circa mille euro, per coloro che hanno alle spalle solo 5 anni di Camera o Senato, e che verrà erogata al compimento dei 65 anni d’età. Matteo Renzi, in qualità di presidente del consiglio, ha percepito un reddito, nel 2016, pari a 105 mila euro. Sarà anche un po’ barbaro, ma qualcuno dovrebbe spiegare differenze così rilevanti: 105 mila euro vs 38 milioni. Per dare alle parole il loro significato più autentico. E buttare acqua sul fuoco della polemica populista.

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