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Le critiche in Usa e in Europa contro la Germania sono sacrosante. Parola del politologo Mead

Mead

Venerdì scorso si è tenuto a Washington l’atteso primo faccia a faccia tra il presidente americano Donald Trump e la cancelliera tedesca Angela Merkel, a caccia del suo quarto mandato. Ha fatto più notizia il presunto rifiuto di Trump di stringerle la mano davanti ai fotografi nello studio ovale (stretta comunque concessa sia all’arrivo della cancelliera alla Casa Bianca che al termine della conferenza stampa) che il lungo elenco di temi su cui si registrano divergenze tra i due leader. Non sono solo le biografie e lo stile, che non potrebbero essere più agli antipodi, a rendere complicati, ma pure interessanti, i loro rapporti, ma anche e soprattutto grandi questioni politiche: commercio, politica monetaria, Nato, Unione europea, Russia, gli accordi sul clima di Parigi. Questioni oggetto delle schermaglie che per settimane hanno preceduto l’incontro. I due si sono criticati prima, durante e dopo la transizione alla Casa Bianca.

Pur premettendo di nutrire un “profondo rispetto” per la cancelliera tedesca, Trump ha definito “un errore catastrofico” la decisione della Merkel di aprire le porte del suo Paese, e dell’Europa, ai rifugiati, mentre la cancelliera ha criticato l’ordine esecutivo della Casa Bianca che blocca temporaneamente gli ingressi negli Usa da alcuni Paesi musulmani e bacchettato il neo presidente sul protezionismo, rammentandogli i mutui benefici del libero scambio. Trump ha salutato positivamente la Brexit, convinto che il Regno Unito abbia fatto bene a riprendersi la sua sovranità uscendo da un’Europa ormai dominata da Berlino. E la cancelliera è preoccupata che la Casa Bianca intenda lavorare per indebolire l’Unione europea. Il governo tedesco è tra quegli alleati della Nato criticati da Trump perché non spendono abbastanza per la difesa (solo l’1,2% del Pil, contro l’obiettivo del 2%). Trump ha notato che ci sono troppe Mercedes a New York, e la Merkel replicato che a Monaco si vendono tanti iPhone. L’amministrazione Trump lamenta un surplus commerciale eccessivo a favore della Germania (65 miliardi di dollari), reso possibile a suo avviso da un euro troppo debole (che in realtà sarebbe un “marco travestito”, secondo il consigliere al commercio di Trump, Peter Navarro).

L’enorme deficit commerciale degli Stati Uniti è infatti in cima all’agenda dell’amministrazione Trump, che sembra volersi concentrare in particolare sulla concorrenza sleale da parte della Cina. Tuttavia, il Wall Street Journal ha fatto notare che la più grande minaccia agli interessi commerciali americani potrebbe venire non dalla Cina, bensì dalla Germania, che sembra porre sfide più serie nel lungo termine. “La Cina – scrive il quotidiano – è oggetto della rabbia degli Stati Uniti per il commercio sleale, ma i surplus esteri della Germania sono ora molto più grandi e possono avere maggiore impatto sull’economia degli Stati Uniti e del resto del mondo”. Per anni la manodopera a basso costo cinese ha messo sotto pressione i salari del settore manufatturiero americano, ma le industrie tedesche sono in competizione più diretta con quelle americane. “Nove dei maggiori dieci settori tedeschi per export, come macchinari ed elettronica, sono gli stessi della top 10 americana”, ha spiegato al WSJ Caroline Freund, del Peterson Institute for International Economics. “L’euro debole – che ha perso circa un quarto del suo valore contro il dollaro negli ultimi tre anni – dà alle imprese tedesche un margine extra sui mercati internazionali”.

Insomma, secondo il WSJ, la Germania starebbe abusando del sistema del commercio mondiale in misura molto maggiore di Cina e Messico. Sebbene possa essere stato vero in passato, la Cina non sta più facendo leva sulla svalutazione del renminbi per sostenere le sue esportazioni; semmai, è preoccupata che la sua moneta si svaluti troppo. La Germania invece ha tratto enormi benefici dalla crisi dell’Eurozona. La debolezza delle economie dei Paesi mediterranei infatti – Italia, Spagna, Portogallo e Grecia – ha reso necessari tassi di interesse bassi e svalutazione dell’euro. Denaro a buon mercato ed esportazioni facili che hanno dato grande spinta all’economia tedesca, il cui surplus commerciale altrimenti avrebbe dovuto fare i conti con un apprezzamento della moneta, non una svalutazione. Il costo, per la Germania, è stato politico, non economico. La sua popolarità presso gli altri stati membri, soprattutto del Sud Europa, è crollata. L’Unione europea si è indebolita, forse come mai prima nella sua breve storia, mentre la Germania è ancora più forte, tanto che il cosiddetto direttorio franco-tedesco è ormai squilibrato.

Il presidente Trump è un pragmatico, un negoziatore d’affari, e la cancelliera Merkel una statista esperta e lungimirante. Non è affatto escluso che i due imparino per necessità a lavorare insieme, ma le divergenze, in campo geopolitico ed economico, sono profonde. In realtà, nonostante il loro sia stato un rapporto sinceramente cordiale, e contraddistinto da una certa sintonia personale, anche tra Obama e la Merkel non sono mancate differenze, come sulla gestione della crisi europea. Anche Obama era preoccupato della debolezza dell’euro e da una stagnazione economica nell’Eurozona che rischiava di frenare la crescita americana e mettere a rischio la sua rielezione. Obama era convinto che per superare la crisi dovessero essere adottati in Europa salvataggi e stimoli fiscali come quelli implementati dalla sua amministrazione in America e ha ripetutamente esortato la Merkel ad abbandonare l’austerità per una politica economica espansiva, e persino ad accettare una qualche forma di condivisione dei debiti pubblici.

È così radicato il pregiudizio anti-Trump nei mainstream media che dalle cronache dell’incontro di venerdì alla Casa Bianca la Merkel emerge come nuova leader del mondo libero e portavoce degli interessi dell’Unione europea, ma a Washington si fa strada un punto di vista radicalmente diverso sulla Germania. È maturata una nuova consapevolezza della crescente egemonia tedesca sul Vecchio Continente (sebbene il tema trasparisse già negli anni di Obama) e delle domande difficili da porsi. Esiste una nuova “questione tedesca”, dal momento che nella cornice dell’Unione europea non esistono più contrappesi al potere di Berlino? La Germania rappresenta, al pari di Cina e Russia, una sfida all’ordine politico ed economico occidentale? A chiederselo è il politologo Walter Russell Mead in un’analisi pubblicata su “The American Interest”.

Parte del problema, a suo avviso, è che le classi dirigenti tedesche non sono nemmeno consapevoli di quanto nazionalista sia diventata la loro politica. Il passaggio dell’Europa orientale da un’epoca di dominio russo all’integrazione in un ordine europeo dominato dalla Germania non è solo una vittoria dello stato di diritto come nella visione di Berlino, ma innanzitutto uno spostamento di potere nel quale la Russia abbandona ogni velleità di recuperare l’influenza perduta con il crollo dell’Unione sovietica, mentre la Germania espande a est la propria, consolidando la sua posizione di stato leader in Europa dagli Urali all’Atlantico. I tedeschi percepiscono la propria politica europea come un modello di europeismo responsabile e disinteressato, motivato dal loro “incrollabile impegno per un’Europa post-nazionalista”, in mezzo a partner irresponsabili e ingrati. In realtà, osserva Mead, è “molto più nazionalista di quanto credano”. Ritenendo il nazionalismo come qualcosa di “malvagio e distruttivo”, i tedeschi pensano di esserne immuni. “Non è malvagio, né fascista”, ma la Germania “è ancora una nazione” e i tedeschi perseguono i propri interessi nazionali.

Scrive quindi Mead che “non disposta a riconoscere che persegue una politica commerciale brutalmente mercantilista e che ha sacrificato la solidarietà europea per preservare l’armonia politica interna, la Germania è diventata meno un sostenitore dell’ordine occidentale e più un problema per l’Occidente”. Realtà difficile da riconoscere per i tedeschi, e quindi ancor più difficile per i partner da discutere efficacemente con Berlino. Il guaio, osserva, è che “gli altri Paesi europei non hanno più il potere per indurre la Germania a ripensare la sua politica europea”. Con il Regno Unito che ha imboccato la via dell’uscita dalla Ue, una Francia scossa dal terrorismo, indebolita economicamente e verso un’elezione presidenziale dall’esito incerto, Italia e Spagna retrocesse dalla crisi, non esistono più contrappesi allo strapotere tedesco. “Con la Brexit svanisce la speranza più realistica per una soluzione europea alla nuova questione tedesca” e “la prospettiva di un cambiamento viene dall’esterno dell’Europa”.

Sia la Russia di Putin che la Turchia di Erdogan stanno cercando di “destabilizzare” l’Ue. Per gli Stati Uniti, ricorda Mead, è sempre stata desiderabile un’Europa in pace, libera da influenze esterne, e coinvolta in un sistema capitalistico aperto a livello mondiale. Su tali presupposti hanno lavorato con Berlino e gli altri alleati europei per espandere Nato e Ue. E queste sono state “le basi” delle relazioni tra Washington e Berlino fin dal 1990, nonché le basi del sostegno da parte dell’amministrazione Bush padre alla riunificazione tedesca “contro i desideri dei russi, dei britannici e dei francesi”. Ricordiamo la contrarietà dell’allora premier britannica Margaret Thatcher ad una “Grande Germania”: coniugate al “carattere nazionale” tedesco, dimensioni e posizione geografica del nuovo Stato avrebbero potuto provocare un “effetto destabilizzante” sull’Europa. La riunificazione, avvertiva la Thatcher, “non porterà a una Germania europea ma a un’Europa tedesca”. Preoccupazioni condivise dall’allora presidente francese Mitterand (la riunificazione farà riemergere i tedeschi “cattivi”). Emblematica la celebre battuta dell’ex presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti: “Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”.

Alla fine, la riunificazione tedesca fu accettata sulla base della duplice garanzia dell’appartenza della nuova Germania alla Nato e del quadro politico-istituzionale dell’Ue. Ora, avverte WRM a conclusione della sua analisi, l’amministrazione Trump potrebbe essere la prima da decenni a trovarsi di fronte interrogativi difficili, impensabili fino a pochi anni fa per la politica estera americana. Cosa succede “se la Germania non è più vista come un pilastro leale dell’Occidente, a sostegno dei principi dell’ordine liberale, ma come una potenza sconsiderata e mercantilista che mina l’Europa e danneggia l’economia americana”? E “nella nuova fase di rivalità tra Germania e Russia per il controllo dell’Europa orientale – si chiede – dove stanno gli interessi dell’America?”

“Senza una relazione stretta con Berlino – osserva WRM – è difficile per gli Stati Uniti fare molto riguardo l’attacco di Putin all’ordine post-Guerra Fredda in Europa e in Medio Oriente, ma allo stesso tempo la stabilità tedesca poggia su basi insostenibili, al prezzo di una Unione europea sempre più instabile e divisa”. Le rimostranze per il surplus commerciale tedesco non giungono solo dal “protezionista” Trump, ma trovano inaspettate sponde anche in diverse capitali europee, dove si ritiene che Berlino stia indebolendo la ripresa nell’Eurozona mancando di stimolare la propria domanda interna. L’attuale surplus tedesco viola le regole e “fa male a tutta l’Europa”, è la denuncia reiterata dall’ex premier italiano Renzi. In generale, rileva il politologo, si rimprovera alla Germania di avere “un approccio all’euro essenzialmente predatorio”, di perseguire, come la Cina, una “politica mercantilista basata sul mantenimento con ogni mezzo” di un surplus commerciale, che in Germania, come in Cina, “assicura la stabilità sociale e la salute dei settori industriali”.

Ma questa politica, avverte WRM, “sebbene popolare internamente, sembra insostenibile”. “Se Russia, Turchia e Stati Uniti sono uniti nell’opporsi al progetto tedesco (sebbene non per gli stessi motivi e non con gli stessi obiettivi), e se è crescente il malessere di buona parte dell’Ue per la leadership tedesca, prima o poi il sistema si scontrerà con sfide che non può superare. Lo status quo – conclude WRM – non può durare, e più a lungo Berlino ritarda un cambio di rotta, più sarà doloroso, più alto sarà il prezzo che dovrà essere pagato”. Secondo il politologo, sono due i temi sui quali venendo incontro alle richieste dell’amministrazione Trump, Berlino potrebbe creare le basi per rinnovare la sua alleanza con Washington: rispettare l’impegno di spesa militare in ambito Nato e affrontare il tema del surplus commerciale. Anche se entrambi questi passi “metterebbero a rischio la pace sociale in Germania”. È possibile che proprio richieste in tal senso si sia sentita avanzare, e in toni abbastanza assertivi, la cancelliera Merkel durante il suo incontro con il presidente Trump alla Casa Bianca. Da qui il clima cordiale, ma freddo del loro primo incontro. Che per la prima volta la Merkel anziché spadroneggiare si sia vista recapitare il conto?

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