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Beppe Grillo, Ciriaco De Mita e i sogni a 5 stelle di Pier Luigi Bersani

Pier Luigi Bersani

Pier Luigi Bersani non si lascerà certamente convincere neppure dal vecchio amico ed ex compagno di partito Emanuele Macaluso. Che lo ha educatamente e amichevolmente esortato a smetterla di scambiare il Movimento 5 stelle per partito “di centro”, per quanto “arrabbiato”, e di corteggiarlo all’inverosimile, nella speranza apparente di riconquistare gli elettori una volta di sinistra che lo stanno votando da qualche tempo.

Macaluso ha, fra l’altro, ricordato a Bersani che anche il povero romagnolo Nicolò Bombacci, un insegnante e parlamentare di fede socialista, tra i fondatori nel 1921 del Partito Comunista d’Italia, s’invaghì dei fascisti finendo fucilato a Dongo nel 1945, mentre tentava con Benito Mussolini di fuggire dall’Italia dopo averla rovinata con la dittatura e la guerra. Ma dal fascismo, senza riuscire a cambiarne la natura, furono attratti anche esponenti liberali e del partito cattolico dei popolari.

Macaluso non arriva a dare del fascista a Beppe Grillo e al suo movimento, e neppure del nazista, come invece ha fatto più volte Silvio Berlusconi, ma si è fermato ad un aggettivo ugualmente pesante, che comporta per un democratico l’obbligo di combatterlo, non di inseguirlo sino ad accordarvisi, foss’anche per eliminare un comune avversario. Che sarebbe nel caso di Bersani naturalmente Matteo Renzi. L’aggettivo di Macaluso è quello di eversivo, per il proposito non certo nascosto da Grillo di sovvertire l’ordine costituito, come spiega un qualsiasi dizionario della lingua italiana: un ordine che secondo i pentastellati non basterebbe modificare, tanti sarebbero i ladri, i banchieri, i petrolieri eccetera eccetera che lo affollerebbero distorcendolo ai loro vizi e interessi.

Mancano all’elenco grillino di chi crea disordine nell’ordine solo i militari e i magistrati, specie questi ultimi, forse perché sotto sotto i pentastellati vogliono guadagnarsene i favori: quelli delle toghe di sicuro, forse anche per pescare tra di loro l’uomo giusto, abbastanza noto, per candidarlo alla guida di un governo a 5 stelle, a dispetto delle aspirazioni a premier dei vari Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici.

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Il guaio, almeno per Macaluso, che conserva orgogliosamente il ricordo della sua militanza politica e inorridirebbe alla sola idea di poterla paragonare a quella dei pentastellati, è che Bersani con la sua strana teoria del centro, sia pure arrabbiato, inteso come elemento fisico e non politico, per cui è centrale tutto ciò che per una qualsiasi somma di circostanze si trova a stare in mezzo ad un incrocio, rappresenta Grillo e il suo movimento come una volta la sinistra democristiana, per esempio, rappresentava il Pci. Ripeto: il Pci, esattamente quello di cui hanno fatto parte sia Macaluso che lo stesso Bersani.

I vari De Mita della Dc degli anni Settanta e Ottanta, almeno dopo che Enrico Berlinguer cominciò a distanziarsi solo di pochi punti dallo scudo crociato di Amintore Fanfani e poi del moroteo Benigno Zaccagnini, e prima che Indro Montanelli salvasse i democristiani incitando i laici a votare per loro turandosi il naso, pur di non farli sorpassare dagli uomini delle Botteghe Oscure; i vari De Mita della Dc, dicevo, preferivano scommettere più sull’evoluzione del partito comunista che sulla prosecuzione o sulla ripresa dell’alleanza con i socialisti. E consideravano una bestemmia politica, o quasi, l’idea che si potesse creare un fronte governativo, o comunque di maggioranza, esteso sino ai confini con la destra, per isolare o non accordarsi col Pci.

Ciò è esattamente quello che oggi Bersani, come ha appena ripetuto nello studio televisivo di Lilli Gruber, a la 7, ritiene che non si debba fare per contrastare, anziché inseguire, cioè corteggiare, i grillini. Nei cui riguardi egli non condivide la qualifica di “populisti” attribuita loro, in particolare, da Matteo Renzi – e chi sennò?- per contrapporli ai “responsabili”. Alla testa dei quali Bersani immagina che il segretario uscente e ormai rientrante del Pd non veda l’ora di mettersi per formare un governo all’indomani delle elezioni politiche, ormai destinate a svolgersi col vecchio sistema proporzionale. Che consentirebbe ai partiti di andare alle urne senza vincoli di alleanze, da cercare e stipulare solo dopo il voto, secondo i rapporti di forza tra quelle rimaste in campo, e le loro convenienze naturalmente.

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Anche su questa storia del sistema elettorale proporzionale deplorevole in sé solo per questa libertà di azione che lascerebbe ai partiti, in grado quindi di pescare voti da una parte e poi schierarsi praticamente dall’altra, avrei da ridire, avendo avuto la possibilità, diversamente da tanti giovani o meno giovani che ne scrivono, di avere visto e raccontato da giornalista buona parte dei 50 anni anni di applicazione del sistema proporzionale, appunto, nella Repubblica italiana.

Gli elettori, fatta eccezione per l’appuntamento anticipato con le urne del 1976, hanno sempre saputo con chi poi si sarebbero alleati i partiti per i quali avevano deciso di votare. Ma ve lo racconterò meglio un’altra volta, perché ho già abusato del vostro tempo.

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