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Ilva, Jindal, ArcelorMittal e i fan della nazionalizzazione

Di Carlo D’Onofrio e Augusto Bisegna
pd,

È un accordo al ribasso, ma per una volta nessuno pronuncerà queste parole con l’intonazione lamentosa che di solito le accompagna. Perché il ribasso, spuntato dai sindacati al tavolo del ministero dello Sviluppo Economico, riguarda il numero dei dipendenti dell’Ilva che dal 3 marzo saranno coinvolti nella cassa integrazione straordinaria. Non più i quasi 5mila che figuravano nella richiesta presentata un mese fa dai commissari, subito respinta da Fim Fiom e Uilm e poco gradita pure al governo, bensì 3.330, la stragrande maggioranza dei quali (3.240) concentrata nello stabilimento di Taranto (gli altri 60 in quello di Marghera).

La proposta di rinnovare i contratti di solidarietà, caldeggiata soprattutto dalla Fiom, è uscita quasi subito dal radar del negoziato. In effetti la cigs garantisce un periodo di più lungo di copertura, 24 mesi cui se ne possono aggiungere altri 12, mentre i contratti di solidarietà non vanno oltre i 18. Una differenza non di poco conto se si considera che il 6 marzo (nuovo termine dopo che il precedente, fissato al 3 marzo, è stato prorogato dai commissari) verranno rese note le offerte vincolanti delle due cordate in lizza per rilevare il gruppo e che da quel momento Ilva entrerà in una complicata fase di transizione. Così i meccanici della Cgil sono stati costretti ad inghiottire il rospo, anche se per coprirsi la ritirata hanno fatto ricorso all’ormai consueto stratagemma della firma con riserva.

Dall’accordo esce ammaccata anche la retorica ecopopulista del governatore della Puglia Michele Emiliano, che nelle settimane precedenti ha accusato il governo delle peggiori nefandezze – su tutte quella di voler fare “il lavoro sporco” per conto dei futuri acquirenti – ma poi, a cose fatte, ha negato ai lavoratori dell’Ilva di Taranto l’integrazione al reddito che la Regione Liguria ha invece riconosciuto ai loro colleghi dello stabilimento di Cornigliano, a Genova. Per Emiliano non si tratta di una novità. Ieri Fim Fiom e Uilm di Taranto sono tornate a sollecitare alla Regione una presa di posizione sulle ditte degli appalti Ilva, di cui in teoria dovrebbe occuparsi una task force che era stata istituita su pressione proprio dei sindacati: anche in questo caso non si è andati oltre gli annunci. Il che rafforza l’opinione di chi, non da oggi, a Roma come sul territorio, ritiene che l’Ilva sia finita nel tritacarne dello scontro interno al Pd e che da ultimo le sue vicende siano strumentalizzate in chiave di battaglia congressuale.

Dopo quasi cinque anni di passione – il sequestro dell’area a caldo dello stabilimento tarantino data al 26 luglio 2016 – il groviglio giudiziario, politico, economico che tiene in ostaggio il gruppo che fu della famiglia Riva non è ancora sciolto. Cosa più grave, anche l’imminente presentazione delle offerte delle due cordate in gara per rilevarne gli asset è avvolta da un velo di incertezza.

I duellanti hanno iniziato a darsi battaglia sui giornali, in una sorta di campagna elettorale che, come da tradizione italiana, prevede anche il formarsi di tifoserie vocianti ai margini del terreno di gioco.

Lo schieramento più chiassoso, almeno finora, è quello che sostiene la “squadra” di Acciaitalia, capitanata dagli indiani di Jindal, scesi in campo in un secondo momento accanto a Arvedi, Cdp e Delfin di Leonardo Del Vecchio. A scatenare l’entusiasmo dei suoi supporter è stata l’intervista con cui il Sajjan Jindal, presidente di Jindal South West, ha annunciato che una parte della produzione, circa la metà, sarà realizzata in prospettiva sostituendo il gas al carbone. In questo caso l’acciaio viene prodotto con forni elettrici alimentati con il preridotto, un semilavorato contenente ferro metallico ottenuto da pellets (palline) di minerale ferroso trattate con monossido di carbonio e idrogeno. Si tratta della cosiddetta decarbonizzazione, di cui Emiliano – sempre lui – si è fatto da tempo paladino.

La squadra avversaria, Am Investco Italy, partecipata all’85% da ArcelorMittal e al 15% da Marcegaglia, ha risposto per le rime. Il colosso anglo – indiano sostiene infatti che l’introduzione del gas nel processo produttivo dell’Ilva è un ballon d’essai, una trovata, appunto, da campagna elettorale, che nel caso dello stabilimento di Taranto rappresenta uno sbocco forse auspicabile ma del tutto futuribile. E comunque troppo costoso, nel breve periodo, per un’azienda con i conti in rosso che ha bisogno urgente di riaffacciarsi in modo competitivo sul mercato.
Obiettivamente il piano enunciato da Jindal si presenta ambizioso. Eppure non è facile capire come dagli attuali livelli produttivi, attestati poco sotto i 6 milioni di tonnellate, sia possibile passare in tempi relativamente alle 10/12 tonnellate che secondo Jindal rappresenterebbero l’optimum per riposizionare Ilva sul mercato. Il gruppo indiano aveva lasciato nel vago la questione dell’Afo 5, il più grande altroforno d’Europa chiuso l’estate scorsa dai commissari, il cui apporto – da solo è in grado di assicurare il 40% della produzione di Taranto – è indispensabile se si vogliono far crescere in modo significativo i volumi. Poi però ha fatto sapere di ritenerlo centrale per il suo piano di rilancio dell’Ilva.

Il problema è che per ristrutturare l’Afo 5 servono 300 milioni di euro; il che spiegherebbe, tra l’altro, perché ArcelorMittal ha dichiarato esplicitamente di volerne fare a meno.
Queste considerazioni non sembrano però tenute in gran conto da chi si è precipitato a tracciare una netta linea di demarcazione sul campo da gioco: di qua “i buoni”, cioé Jindal con il progetto green, rispettoso dell’ambiente e della slaute di lavoratori e cittadini; di là i “cattivi”, cioè ArcelorMittal, sui quali viene ribaltata, in modo nemmeno velato, l’accusa di volersi impossessare delle quote di mercato di Ilva per poi chiudere lo stabilimento e mandare tutti a casa. Quest’ultima è la versione hard della teoria del complotto, sposata tra gli altri dalla Fiom. Ma c’è anche una versione soft, sostenuta di recente da Susanna Camusso, che si limita a parlare di “ridimensionamento”.

A ben vedere la questione è più di forma che di sostanza. Tanto che a qualcuno è venuto il sospetto che dietro certe prese di posizione si nascondano giochi che con la sorte dell’Ilva e dei suoi lavoratori hanno poco a che fare. È il caso di Marco Bentivogli, leader della Fim, il sindacato dei metalmeccanici della Cisl, che in un articolo sul Foglio ha messo in guardia contro la voglia di nazionalizzazione che si respira da tempo attorno alla più grande impresa siderurgica italiana. La tentazione di tornare ai tempi dell’Italsider sarebbe il non detto che si cela tra le righe di tante dichiarazioni che sembrano orientate più a far saltare la gara che ad analizzare con spirito critico le proposte in campo. Proposte che, peraltro, sono state esposte finora solo in modo molto sommario attraverso i giornali. Ma davvero qualcuno crede che da un paio di interviste sia possibile ricavare gli elementi di giudizio che solo la lettura attenta dei piani industriali – e dei piani ambientali ad essi legati – può fornire? A pensar male – diceva uno che la sapeva lunga – si fa peccato, ma spesso si indovina…

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