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Perché il discorso di Matteo Renzi al Lingotto non mi ha convinto

Il discorso pronunciato da Matteo Renzi al Lingotto non mi ha convinto. “Sono tre mesi che giro col capo cosparso di cenere. Ora basta. E se qualcuno pensasse che a fronte del momentaneo indebolimento io abbia perso energia e grinta, commetterebbe un gravissimo errore”: così ha deciso di presentarsi sul palcoscenico torinese aprendo la campagna delle primarie. Un tono muscolare che a mio avviso non gli giova se vuole riconquistare il consenso e la fiducia di quei cittadini che al referendum costituzionale lo hanno sconfitto nelle urne.

Troppa retorica del futuro e poca analisi del presente: la mia l’impressione è che Renzi faccia ancora fatica a parlare a tutto il Paese. Non è solo una questione di stile comunicativo. È come se per l’ex presidente del Consiglio la stagione del maggioritario non fosse finita, nonostante l’ormai conclamato fallimento della Seconda Repubblica. La verità è che, dopo due decenni di bipolarismo zoppo, l’Italia si trova a dover fare i conti con un tripolarismo malato, in cui il soggetto più forte -il M5s- non nasconde la sua avversione per la democrazia rappresentativa.

La domanda, allora, è questa: il Pd disegnato da Renzi al Lingotto è pronto ad affrontare quel vero e proprio cambio di paradigma politico che oggi vede un nuovo bipolarismo, quello tra chi sta dalla parte del parlamentarismo e dell’europeismo e chi, invece, sta dalla parte del sovranismo e del nazionalismo? Francamente, non so rispondere. Perché è vero che Renzi si è inventato il ticket con Maurizio Martina e ha usato un po’ di più il pronome “noi”, ma non sono certo che abbia realmente superato la sindrome del leader solitario, che comanda spalleggiato solo da un ristretto gruppo di amici.

Vedremo. Vedremo se Renzi sarà in grado di costruire quel “partito pensante” ma radicato nel territorio (rilanciando anche la funzione “sociale” dei circoli nelle periferie urbane) che ha annunciato al Lingotto. Partito pensante che significa però un rapporto più aperto con gli intellettuali, una nuova squadra dove esperienza politica e competenze tecniche si fondano, capacità inclusive che temperino le fregole lideristiche. Insomma, è la stessa idea di leadership che va radicalmente riformulata se si vuole avere qualche chance di successo al prossimo appuntamento elettorale. Non è un caso che un premier come Paolo Gentiloni goda di una simpatia molto legata al modo discreto e mite con cui interpreta il suo ruolo.

Con il sistema proporzionale (qualunque sia la sua versione) le alleanze parlamentari sono inevitabili. Si possono demonizzare, si può gridare all’inciucio, ma possono perfino diventare virtuose se i moderati e i riformisti riuscissero a concordare un comune programma di governo contro il fronte populista, il vero grande nemico dell’Europa e della democrazia italiana. Altro che rivincita del leader ferito. Qui e ora non è in gioco il destino personale di chicchessia, bensì le sorti di un Paese malandato in un continente sull’orlo di un precipizio, in cui sprofonderebbe se in Olanda e in Francia prevalessero le forze xenofobe e lepeniste.

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