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Sentenza sul velo, ecco veri effetti e troppe polemiche

Muslim ban velo

La sentenza di ieri della Corte di giustizia europea sul velo trancia di netto una vecchia polemica, optando per la legittimità del divieto a indossarlo qualora l’azienda lo ritenga controproducente nei rapporti con i clienti. È una decisione che fa già discutere molto, come dimostrano i giornali di oggi, pieni di donne islamiche che si dichiarano sconcertate per la deliberazione.

È un fatto che il velo sia il simbolo per antonomasia dell’identità dei musulmani in Occidente. Buona parte delle musulmane del Vecchio continente lo indossa per scelta, ossia per libera adesione ad un modello tradizionale di rapporti tra i sessi e con i non musulmani. Il principio è che la bellezza femminile deve essere riservata ai mariti e occultata agli occhi delle persone non imparentate, ancor più nei luoghi pubblici.

Le donne che sostengono di velarsi per scelta non sanno, o fanno finta di non sapere, che il velo è stato ed è il cavallo di battaglia dei movimenti fondamentalisti, ossessionati dalla contaminazione occidentale e dalle libertà attribuite alle donne nei paesi non musulmani. Ora gli integralisti di tutte le risme avranno buon gioco nel denunciare il comportamento discriminatorio dell’Europa.

Ma la Corte di giustizia ha stabilito esattamente il contrario, vale a dire che il bando al velo non costituisce discriminazione diretta se deriva da un regolamento interno che proibisce l’ostentazione di qualsiasi simbolo che manifesti l’adesione a ideologie politiche, visioni filosofiche e, appunto, religioni. Sarebbe discriminazione, dice la Corte, se il provvedimento riguardasse le sole musulmane. Ma così non è.

Sta di fatto che d’ora in poi le musulmane vengono avvertite: devono scegliere se aggrapparsi ai simboli o se essere cittadine alla pari delle altre e, dunque, in grado di aspirare a lavorare in luoghi dove le persone con cui si entra in contatto possono essere mal disposte a relazionarsi con soggetti che ostentano la propria differenza culturale. La posta in gioco, in definitiva, altro non è che la coesione sociale. Le differenze sono sì un elemento intrinseco di una umanità plurale, che si trova racchiusa nelle società multietniche. Ma le differenze, se si irrigidiscono, possono creare fratture e tensioni, minando la fluidità e la spontaneità delle relazioni sociali.

Tutti i paesi europei, e l’Italia è tra questi, devono misurarsi con la sfida dell’integrazione, ossia del metodo giusto per includere le tante comunità dalle radici peculiari che si ritrovano a coabitare sotto lo stesso cielo. E se il diritto alla differenza è sacrosanto oltre che tutelato dalle leggi, non lo è l’aspirazione a vivere in ghetti sociali sociali e morali. Una società attraversata dalle differenze non è la stessa cosa di una società compartimentata e senza sufficiente comunicazione tra le sue componenti. I musulmani, in altre parole, devono venire a patti e trovare una mediazione tra la legittima aspirazione a riconoscersi in una tradizione e l’auspicabile inclusione, in condizioni di uguaglianza formale, nella società.

Come ha sancito ieri la Corte di giustizia, il velo può essere di ostacolo all’integrazione. In ogni caso, non può essere invocato come diritto illimitato. Portare il velo si può ma a una condizione: relegandolo nella sfera privata e limitandone l’uso nello spazio pubblico, che è lo spazio in cui tutti devono ritrovarsi e riconoscersi. Questa lettura sarà in ogni caso sfidata di petto dalle organizzazioni islamiste, specie le più irriducibili, quelle che preferiscono ritagliare uno spazio separato e islamizzato nelle nostre città. Prepariamoci ad assistere ad una battaglia epocale.

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