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Perché è storica la decisione della magistratura sulla violenza contro Fatima

Muslim ban velo

“Non c’è costrizione nella religione”, recita il Corano. È un precetto evidentemente ignoto ai genitori di Fatima (nome di fantasia), la quattordicenne di Borgo Panigale di origine bengalese cui la madre ha rasato i capelli a zero perché non indossava il velo a scuola. Quando la preside dell’istituto frequentato da Fatima se n’è accorta, non ha esitato e, raccogliendo il grido di dolore della ragazza, si è rivolta ai servizi sociali. I quali ora hanno in custodia Fatima, accolta in una struttura protetta insieme alle due sorelle maggiori, su iniziativa della Procura dei minori di Bologna. “Violenza psicologica”, è l’accusa dalla quale dovranno difendersi i genitori, nell’indagine che sarà svolta dalla procura ordinaria di Bologna.

Una decisione storica, quella della magistratura emiliana, che sgombra il campo da ogni equivoco multiculturale. Il caso di Fatima è l’ennesimo di una serie che evidenzia le tensioni da cui è attraversato il mondo dell’immigrazione. Un mondo in cui i retaggi culturali dei migranti sono spesso vissuti con fastidio, se non subiti, dalle seconde generazioni. Cresciuti in contesto occidentale, i figli degli immigrati non si riconoscono più nelle norme e negli interdetti dei genitori. Ne nascono, inesorabilmente, scontri e conflitti che possono portare a decisioni estreme. In questo caso, la rasatura dei capelli di una ragazza che voleva essere come le altre. Ma in altri casi, le ragazzine “occidentalizzate” hanno pagato un prezzo assai più elevato: la vita. Ricordiamo tutti la storia di Hina Saleem, la ragazza di origine pakistana trucidata dal padre perché si ostinava a disubbidire alle prescrizioni paterne, ostili ai costumi occidentali della figlia. E c’è anche il nome di Sanaa Dafani iscritto nella nostra memoria collettiva: una ragazza marocchina solo sulla carta, che aveva scelto di essere italiana, e di amare un italiano: troppo, per il padre autoritario, che l’ha sgozzata di fronte al fidanzato.

Stavolta, la violenza è stata solo psicologica. Inaccettabile comunque, in uno Stato che ha il rispetto dei diritti umani tra i suoi cardini. I diritti di Fatima sono stati violati da una madre che, scoperta la trasgressione della figlia, l’aveva inizialmente insultata e minacciata, ricorrendo al provvedimento simbolico e prevaricatore di tagliarle una ciocca di capelli. Se non ubbidisci, ti riportiamo in Bangladesh, s’è sentita dire la giovane. Che, per fortuna, ha trovato la comprensione delle nostre istituzioni, a partire dalla scuola. Adesso, il provvedimento drastico della Procura dei minori è destinato a fare scuola. È un precedente importante, che servirà a tutelare quell’universo sommerso in cui si trovano numerose ragazze costrette controvoglia a sottomettersi ai diktat di genitori che, con la scusa della religione, allontanano i figli da quel mondo che per essi è un contesto naturale. È il mondo delle amicizie, degli scambi, dei primi amori, delle mode. Le tipiche manifestazioni della gioventù che sono reputate diaboliche dagli immigrati imbevuti di tradizonalismo oscurantista. I dati sull’abbandono scolastico delle figlie di cittadini stranieri denunciano una situazione inaccettabile: innumerevoli ragazzine sono costrette dai genitori a lasciare la scuola, ambiente promiscuo che trasuda libertà, per prepararsi a divenire mogli, madri e casalinghe. Soprusi belli e buoni che la nostra civiltà giuridica ha il dovere di prevenire, per assicurare a tutti i cittadini il diritto a godere delle libertà fondamentali.

Non c’è dialogo tra culture che tenga, di fronte a fenomeni che abbiamo il dovere di combattere. Con il caso di Fatima, e col provvedimento della Procura dei minori, questa battaglia ha fatto un passo in avanti. D’ora in poi, nessuna tolleranza sia ammessa verso l’intolleranza, nemica della coesione sociale e della convivenza pacifica tra popoli, culture e fedi sotto l’ombrello del diritto.

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