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L’aspetto umano dell’imprevedibilità di Trump è un fattore politico

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Chi osserva il conflitto siriano e la politica americana sa, o meglio sapeva, che c’era da sempre un limite piuttosto chiaro su tutto quello che gli Stati Uniti avrebbero potuto fare in Siria: non intervenire direttamente contro il regime di Bashar el Assad per non indispettire la Russia, che di Assad è la principale alleata – e vicendevolmente Assad è il pezzo forte della presenza russa in Medio Oriente, anche se non lo è lui in quanto tale, ma lo è la Siria e il sistema che controlla Damasco, strategico per posizione geografica e posizionamento attuale delle forze armate inviate da Mosca a Latakia, a Tartus e in altri posti (tra cui la base di Shayrat, quella colpita la notte passata dagli americani nei pressi di Homs).

Barack Obama, che ha aperto un back channel con alcuni gruppi ribelli nel tentativo di destituire Assad, era stato sempre restio ad azioni dirette per evitare di scomodare il Cremlino. Donald Trump, nel giro di poche ore, è invece passato dallo “stay out” del 2013 – quando Obama ventilava l’ipotesi di un’azione come quella vista in queste ore (per un motivo analogo, l’attacco al sarin a Ghouta, ma con decine e decine di morti in più) – ai 59 Tomahawk contro una base aerea siriana. Ryan Evans, direttore di War on The Rocks, sito specialistico su terrorismo e analisi militari, scrive che questo cambiamento di visione di Trump, così netto e così repentino, è uno degli aspetti più preoccupanti di tutta la vicenda (la parte “ugly“).

L’elemento centrale di tutto quello che è accaduto è di fatto l’imprevedibilità di Trump, che è un aspetto umano-caratteriale, ma di cui stante i fatti si sente il peso politico man mano che i giorni di amministrazione passano: oggi lo si scopre anche sul piano militare. Accuratamente, a freddo, verrà compresa – anche dai passi successivi – la strategia dietro a quella che è stata definita un’azione di avvertimento per aver superato la misura con l’attacco chimico di martedì a Idlib e per aver quindi violato l’accordo sullo smantellamento dell’arsenale. Ma se fino a pochi giorni fa si riteneva l’azione di Assad contro i ribelli un messaggio politico, di forza e controllo, che sarebbe passato impunito – e forse così sarebbe andata, tra condanne e sanzioni con Obama –, il nuovo commander in chief ha dimostrato che quelle previsioni (fatte per primo da chi scrive) erano sbagliate.

Con Trump le azioni future non si possono delineare troppo in anticipo, e possono prendere la via unilaterale in qualsiasi momento e ribaltare i riferimenti. Non il massimo per il leader di una superpotenza atomica, ma di certo non una sua novità assoluta.

Questo genere di avvertimento ha un importante valore non solo per gli alleati, che adesso plaudono da Europa  e Oriente, per la sua determinazione – e lo fanno anche perché si sentono sollevati di un bel peso sulla coscienza, con la stella, o le Stelle, occidentali che tornano a brillare sopra i testi del diritto. Ma lo è anche per i suoi contender. Per esempio, la Russia che strada prenderà? Chi conosce il mondo militare meglio di altri, come il generale Carlo Jean, con cui ho parlato stamattina, ritiene improbabile che al di là che sul piano retorico (e in parte diplomatico) la Russia prenda una postura aggressiva. Ossia, non ci sarà nessuna escalation militare. Qualche conferma? Il giornalista del Time di origini moscovite che copre la Russia, Simon Shuster, dice di aver parlato con alcuni funzionari di Mosca che gli hanno riferito che il Cremlino non ha nessuna intenzione di produrre un’escalation. Altro indizio: la visita del segretario di Stato Rex Tillerson a Mosca programmata la prossima settimana non è stata rinviata. Il generale Jean spiega che è per un motivo legato all’inferiorità militare, e lo è: ma sarà, se sarà, anche un modo per permettere a Vladimir Putin di passare ancora una volta – come quando Obama a fine dicembre 2016 punì la Russia per l’interferenza nelle elezioni americane, o come quanto nel 2013 ottenne la negoziazione sulle armi chimiche siriane bloccando l’intervento armato americano – da stratega misurato, evitando reazioni scomposte.

(Nota: in fondo questo attacchi fa benissimo a Trump, perché lo riporta sotto l’aurea dell’uomo forte al comando – anche se i sovranisti italiani sono andati in tilt, e la Lega e il M5S non apprezzano il gesto e nel corto circuito creatosi tra i due amori, Trump e Putin, scelgono il secondo in nome di una qualche forma di pacifismo che ha spesso il sapore di anti-americanismo on demand. Trump, rinforzato sulla sua principale caratteristica umana da poter spendere in politica, la leadership, o pseudo tale, mentre attacca i migliori alleati russi in Medio Oriente e mettendosi sotto le ire del Cremlino, allontana anche qualche sospetto dalle indagini per verificare se la sua elezione è stata aiutata da Mosca. Senza andare oltre, da prendere come ragionamento a latere, per non accedere a dinamiche complottiste da cui di solito chi qui scrive fugge).

Ancora sul messaggio di imprevedibilità, che si cristallizza in faccia ai non-amici. La Cina per esempio, che ha condannato l’azione in nome di una politica di non coinvolgimento storica, ma che mantiene comunque in piedi il bilaterali in corso in queste ore con colui che ha condannato. Pensare che il presidente Xi Jinping non fosse stato avvisato che Trump in una delle sale del resort di Mar-a-Lago dove si trovavano insieme stava decidendo con il capo del Pentagono e quello della Sicurezza Nazionale di attaccare la Siria, è poco credibile. Jinping è quasi impossibile non sapesse, ciò nonostante ha accettato, non ha sbattuto la porta, e probabilmente non è stata questione di protocollo se non ha fatto ri-decollare verso casa il suo jet atterrato a Miami – dichiarazioni di contorno a parte.

Trump spariglia, lo ha fatto con la vittoria, lo sta facendo con le azioni. Ricevuto il messaggio?

 

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