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Come far lievitare il Pil

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Dal 2001 l’economia italiana non cresce in misura significativa, ma sembra ferma in una lunga stagnazione. L’un percento di crescita annua del Pil, a cui tende disperatamente la politica del governo dal 2013 e che è ripresentato nel Def per il 2017, non può definirsi crescita soddisfacente, ma più realisticamente una continua stagnazione che ci lascia indietro rispetto alle maggiori economie dell’Ocse. Quali fattori hanno costretto il Paese a questa deprecabile condizione? A parte gli squilibri della finanza pubblica, la crisi di sistema economico, il declino demografico e la carenza di innovazione diffusa sono i fattori che hanno la maggiore responsabilità. L’innovazione in particolare ha un ruolo cruciale nel fare avanzare la produttività, specialmente quella totale dei fattori produttivi, e visto l’andamento demografico declinante, solo l’aumento robusto della produttività può riportare il Paese su un sentiero di crescita sostenuta.

Dopo anni in cui diverse misurazioni dell’avanzamento della produttività fornivano un quadro desolante e divergente rispetto a tutti i maggiori paesi dell’Ocse, l’Istat nel novembre scorso ha pubblicato una revisione delle misurazioni, che mostra segnali di ripresa proprio negli anni della crisi dal 2009 al 2015. La produttività del lavoro in quegli anni, in particolare, è cresciuta dell’1,1% annuo, seppure con una flessione nel 2014 e 2015, mentre la produttività totale dei fattori è aumentata dello 0,7% annuo. Nonostante questa ripresa, l’andamento complessivo dal 1995 al 2015 rimane preoccupante, perché la produttività del lavoro è salita in media dello 0,3% annuo, ritmo molto distante dall’1,6% della media Ue, e quella multifattoriale è scesa dello 0,1%, risultato unico tra i maggiori paesi Ocse.

Il cedimento della produttività è un fenomeno che ha interessato l’intera area Ocse, ma in Italia ha assunto intensità estreme. Due recenti studi dell’Ocse su dati microeconomici aiutano a delineare meglio il fenomeno. Il cedimento a livello globale non interessa le imprese che si trovano alla frontiera della produttività, ovvero quel 5% al top, ma riflette una crescente divaricazione tra imprese alla frontiera e quelle in ritardo, specialmente in termini di produttività multifattoriale. Il declino di quest’ultima è più accentuato in comparti produttivi in cui è aumentata la divergenza tra imprese. Probabilmente questo è il risultato di tendenze discriminanti tra imprese, come la digitalizzazione, la globalizzazione e il ruolo di quelle conoscenze non codificate, o tacite.

Pertanto se si amplia la divergenza tra imprese, è logico ritenere che il processo di diffusione dell’innovazione e dell’avanzamento tecnico sia divenuto più arduo per molte imprese persino nello stesso settore. Perché mai? Due spiegazioni sembrano le più plausibili: il costo per innovare il modello di produzione secondo le nuove tendenze è aumentato; e il grado di concorrenza in determinati mercati si è ridotto per il prevalere di imprese dominanti che rendono molto difficile l’ingresso di nuovi concorrenti. Di fatto, si nota che nei settori in cui minori sono stati i progressi nella deregolamentazione e verso la concorrenza di mercato, maggiore è la divergenza nella produttività multifattoriale.

Due sviluppi di questa analisi sono molto significativi. Primo, si nota un aumento della dispersione salariale non all’interno dell’impresa, ma tra imprese nell’ambito di ciascun settore piuttosto che tra settori economici. Questa dispersione sembra associata a quella tra le produttività delle imprese del settore. In altri termini più dispersione tra imprese nella produttività e più dispersione si rileva tra i salari delle imprese, sempre nello stesso settore. Quindi in qualche misura la dispersione salariale tra imprese dello stesso settore è da collegarsi alle determinanti della dispersione di produttività, ovvero alla digitalizzazione, globalizzazione e la segmentazione tra imprese delle nuove conoscenze. Ma è da collegare anche alle rigidità strutturali di ciascuna economia, alle sue istituzioni, specialmente la normativa del lavoro, e al ruolo svolto dalle politiche degli Stati.

Il caso dell’Italia è ancor più estremo rispetto agli altri paesi Ocse, come mostrato nell’ultimo rapporto Ocse sull’economia italiana uscito lo scorso febbraio. L’andamento della produttività settoriale risulta più basso che negli altri paesi e tocca in particolare il settore manifatturiero: addirittura, la produttività delle imprese manifatturiere più efficienti scende più rapidamente che in quelle meno efficienti.

Pertanto le politiche volte a ridurre questa dispersione attraverso lo stimolo agli investimenti in innovazione e un cambiamento di peso dei diversi settori alla formazione del reddito nazionale sono poco efficaci se non sono integrate da politiche dirette a diffondere le migliori tecniche tra la maggioranza delle imprese. Al tempo stesso vi sono evidenze statistiche che la correlazione positiva tra differenze salariali tra le imprese e differenze di produttività tende a diminuire tra le imprese a minor produttività. Questo può essere dovuto a regolamentazioni e istituzioni del mercato del lavoro (come protezione salariale e sindacalizzazione) che fanno sì che in quei settori i salari siano superiori ai livelli in linea con la ridotta produttività. Se questo è un bene da un lato, dall’altro lato è un ostacolo alla riallocazione delle risorse verso i settori e le imprese più produttive. Quindi possono riflettersi negativamente nel medio periodo su produttività, competitività e crescita di tutta l’economia.

In conclusione, più produttività per crescere di più, ma anche più diffusione su larga scala dell’innovazione, più correlazione tra salari e produttività, più riallocazione delle risorse produttive verso le imprese più produttive e più concorrenza.

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