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Ipotesi e interrogativi sulla Brexit stile May

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Dopo il passaggio parlamentare voluto dalla Supreme Court, Theresa May ha formalmente notificato al presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk l’intenzione del Regno Unito di recedere dall’Unione Europea e ieri il primo ministro ha annunciato per l’8 giugno elezioni anticipate. In sintesi: Brexit is really happening, la macchina si sta muovendo.

Di questo passo, i cittadini inglesi potrebbero svegliarsi il 29 marzo 2019 – il giorno in cui scadranno ufficialmente le trattative per il cosiddetto Brexit Day – fuori dall’Unione Europea. Dunque, stretta di mano e rapporti di buon vicinato, “closest friends and neighbours” per usare le parole della stessa May.

Ma questa appena descritta è solo la migliore delle ipotesi possibili perché le variabili sono diverse: il Brexit Day, ad esempio, potrebbe cadere (anche molto) più in là nel tempo; oppure, le relazioni potrebbero non essere esattamente di buon vicinato; o, ancora, potrebbe persino non esserci alcun accordo tra UK e UE a regolare i rapporti futuri.

Per iniziare a giocare con gli scenari, però, è necessario un piccolo passo indietro.

Come noto, la notifica prevista dallo scarno articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea non comporta l’uscita immediata dello Stato membro dall’Unione, ma l’inizio del decorso del termine di due anni per la negoziazione dell’accordo di recesso. Due anni, è bene ricordarlo, prorogabili solo con il parere unanime del Consiglio Europeo. Nel corso di questo biennio, quindi, dovranno essere discussi e negoziati i termini di uscita dell’UK dall’Unione Europea nel contesto di una cornice estremamente incerta e, soprattutto, senza precedenti.

Di più. Nella lettera di notifica, Theresa May ha già espresso l’intenzione di accompagnare i negoziati sulla withdrawal (l’addio della Gran Bretagna all’Unione europea) con quelli, ancora più delicati, finalizzati alla costituzione di una “deep and special partnership” tra UK e UE. Stando così le cose, due anni sembrano non essere un termine realistico e, d’altra parte, l’articolo 50 del Trattato sembra essere stato scritto nella convinzione di rimanere una mera ipotesi di scuola.

Tanto più se si considerano da un lato le esigenze negoziali dei due player, l’UK – interessata a ottenere il migliore tra i deal possibili assicurando i rapporti economici con l’UE – e quest’ultima, obbligata a mantenere un atteggiamento disincentivante per gli altri Stati membri. Dall’altra parte, gli obiettivi fissati nel White Paper presentato lo scorso febbraio e contenente le linee guida che accompagneranno la UK nel suo processo di leave the EU and embrace the world, il quale individua temi delicatissimi, suscettibili di allontanare ancora di più le posizioni negoziali.

In ordine sparso: recuperare il controllo degli affari interni e della relativa legislazione; assicurare la continuità giuridica recependo prima e modificando o abrogando poi l’acquis comunitario utilizzando il Great Repeal Bill (che eliminerà lo European Communities Act approvato nel 1972 per consentire l’ingresso della normativa comunitaria nel Regno Unito); regolare i flussi migratori e lo status dei residenti europei in Inghilterra; assicurare un accordo che garantisca anche le posizioni di Scozia, Galles e Irlanda del Nord; assicurare gli scambi commerciali con l’Unione Europea evitando la fuga delle imprese dal suolo anglosassone; e, infine, impostare “ambitious” free trade agreements con paesi extra-UE: un problema, quest’ultimo, particolarmente delicato dal momento che, allo stato attuale, le sole negoziazioni potrebbero rappresentare una violazione del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea se riguardanti materie di competenza esclusiva o concorrente dell’UE.

Da questa rapida (e non esaustiva) rassegna emerge chiaramente la possibilità che si giunga allo spirare dei due anni senza che alcun accordo tra le parti sia stato raggiunto. In quest’ultima ipotesi, lo spazio di manovra sembra essere limitato. In particolare si intravedono, a oggi, due ipotesi, e un punto interrogativo.

Nel dettaglio, la prima ipotesi è che il Consiglio conceda, all’unanimità, una proroga: il Brexit Day slitterebbe e i cittadini inglesi si sveglierebbero il 29 marzo 2019 ancora soggetti alla legislazione europea. La seconda, che il Consiglio non conceda la proroga: in questo modo il Regno Unito e l’UE finirebbero per separarsi senza nessun regolamento sui loro futuri rapporti.

Venendo infine al punto interrogativo: potrebbe, in ipotesi, il Regno Unito revocare in extremis il proprio recesso dall’Unione Europea? La risposta non è affatto priva di effetti pratici e immediati, incidendo direttamente sulla posizione negoziale del Regno Unito nei prossimi due anni. E, infatti, se la notifica fosse irreversibile l’unica alternativa a un accordo non pienamente soddisfacente sarebbe l’uscita senza alcun accordo. Al contrario, laddove si considerasse la notifica revocabile, la posizione del Regno Unito sarebbe significativamente più confortevole, potendo la stessa decidere di rimanere nell’Unione.

Sul punto, l’articolo 50 Trattato tace. La soluzione va dunque cercata altrove, ma è tutt’altro che univoca.
Le norme generali contenute nella Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969 e la Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati tra Stati e Organizzazioni Internazionali del 1986 prevedono entrambe che ciascuna parte possa revocare il proprio recesso in qualsiasi momento prima che questo diventi efficace. Allo stesso tempo, il principio generale di cooperazione tra gli Stati membri comporterebbe da un lato l’obbligo di accettare una revoca del recesso e, dall’altro, l’ombra di una condotta abusiva qualora la Gran Bretagna così agisse al solo scopo di evitare l’uscita senza un accordo soddisfacente.

Sul piano interno, infine, il redattore dell’articolo 50 Trattato, Lord Kerr (curioso caso di omonimia: c’è un Lord Kerr anche tra i giudici della Corte Suprema che hanno deciso il caso Miller stabilendo la necessità del passaggio parlamentare), ha pubblicamente dichiarato nel corso di un’intervista alla BBC che la notifica di uscita sarebbe reversibile; il Primo ministro May, di contro, ha ripetutamente affermato che, nel rispetto della decisione presa dal popolo britannico con il referendum, qualunque cosa accada il Regno Unito lascerà l’Unione Europea. Brexit means Brexit, più chiaro di così. E d’altro canto, anche la proposta di May di anticipare le elezioni politiche all’8 giugno sembra andare proprio nella direzione di consolidare il mandato ad uscire dall’Unione, al fine di procedere spediti verso la meta, indebolendo – per quanto possibile – il fronte dei conflitti interni.

Di sicuro, ad oggi, la revoca della withrawal della UK dall’Unione Europea appare uno scenario alquanto remoto. Eppure, se c’è una cosa che la vicenda Brexit ci ha insegnato, è che gli scenari improbabili, di tanto in tanto, si realizzano: se qualche anno fa qualcuno ci avesse raccontato che il Regno Unito sarebbe uscito dall’Unione Europea, non l’avremmo considerata forse un’ipotesi di scuola?

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